Una ragazza a Mauthausen

Il paesaggio intorno è dolcissimo, con le colline immerse nel verde dei prati e nel giallo dei campi di colza, i giardinetti curati, le case tranquille: mi domando se era proprio quello il paesaggio che cinquant’anni fa si intuiva dal treno, e soprattutto se chi abitava in quelle tranquille casette sapeva dove era diretto il convoglio.
Penso che lo sapessero, visto che i civili del tranquillo villaggio di Mauthausen hanno partecipato alla “caccia alla volpe”, inseguimento e sterminio di 500 russi fuggiti dal campo di concentramento.
Mi domando anche se per gli attuali abitanti di Mauthausen, che la domenica mattina si dirigono verso la chiesa, siano un’eredità scomoda il ricordo e l’ingombrante presenza del campo. Forse lo sono, o forse no, forse preferiscono dimenticare, fare finta che KZ, come indica il cartello stradale, non sia un Konzentration Lager, dove sono morte oltre centomila persone, o forse, come leggo su un quotidiano, sono davvero convinti che non si potesse fare diversamente.
Passiamo in fretta in mezzo a queste case, dalla facciata velocemente rifatta, come un’anziana signora con troppo belletto, e sbagliamo strada; le indicazioni sono vaghe e difficilmente riconoscibili. Insistiamo. La strada sale e si allontana dal Danubio; ancora verde intorno e silenzio. Poi torrette e mura e filo spinato. Ci fanno notare che dall’esterno doveva sembrare una fabbrica, ma perché a noi non sembra una fabbrica?
Comincia ad arrivare molta gente: la piazza dell’appello è piena e confusa; si parla di storia, di ricordi, di torture, si visita il museo, la baracca, il crematorio, la camera a gas. In fila, col nodo alla gola. Ma loro sapevano? Loro, i prigionieri che si trascinavano su e giù per la scala della morte, i “paracadutisti”, quelli che la facevano finita gettandosi sul filo spinato, lo sapevano? Della camera a gas, dei forni crematori, dell’olocausto, della “razza pura”? Ho scoperto che molti non sapevano “ci si rendeva conto che chi andava a fare la doccia in un certo posto non tornava, ma non sapevamo dove fossero finiti. Noi vedevamo solo la cava e la baracca, per il resto ci tenevano all’oscuro di tutto.”
Se questo è vero, i milioni di uomini e donne che sono entrati nei campi nazisti e hanno respirato la morte per anni, o sono morti con lo Cyclon B, per poi finire nel forno crematorio e nelle fosse comuni non sapevano. Né di quale “colpa” si erano macchiati, né chi avesse deciso il loro destino. Erano oppositori politici, soldati nemici, ebrei, omosessuali, zingari, diversi… e se mi guardo attorno mi accorgo che molti di questi diversi oggi sono qui, cinquant’anni dopo, a celebrare la loro diversità, sventolandola come una bandiera di libertà. Ma fuori di qui? Fuori, da queste mura e questo filo spinato, quanti ragazzi col pugno levato possono cantare liberamente l’Internazionale o i canti di Resistenza, o quanti zingari possono sfilare sotto gli occhi ammirati e commossi di ventimila persone, quanti omosessuali sentirsi integrati?
E soprattutto quanti di quei ventimila, giovani e giovanissimi, sapranno testimoniare davvero che non dovrebbero esistere discriminazioni sociali, economiche, politiche, religiose e razziali?
Tra gli applausi sfilano orgogliosi e commossi, tra lacrime e sorrisi, i superstiti; sono tornati per incontrarsi e incontrarci, per ricordare chi non ce l’ha fatta, e, tra le parole e le preghiere, io mi vergogno profondamente di essere figlia di un mondo che ha generato e che continua a generare oppressori e oppressi.

Grazia Bruttocao Istituto Magistrale “S. Giuseppe”
Vigevano