Teo Ducci

Valeva la pena di tornare? Non lo so. Ogni giorno che passa crescono i miei dubbi e affogano in un mare di amarezza. Sono passati cinquanta anni. Sono tanti, per curare i nostri corpi martoriati, per sanare i nostri nervi a pezzi, per lasciare decantare ricordi. Quante illusioni, allora, uscendo miracolosamente vivi da quello che chiamarlo inferno è un eufemismo. Quante speranze nei nostri commossi appelli alla pace, alla tolleranza, al rispetto delle idee e delle persone! Mai più! Mai più! E invece, guardiamoci intorno e ditemi se è questo il mondo da noi sognato nel quale tentavamo di riprendere a vivere, ripartendo letteralmente da zero. Eravamo un branco di sbandati. Avevamo dei problemi che ognuno di noi, da solo, non poteva risolvere. E allora ci siamo messi insieme, costituendo questa nostra Associazione. Ci siamo contati: quattro gatti a miagolare sugli orrori ai quali avevamo assistito, a tentare di spiegare l’inspiegabìle, a reclamare un po’di riconoscenza, di attenzione alle condizioni politiche e storiche nelle quali ha potuto maturare il frutto marcio della persecuzione, della violenza, dell’odio viscerale verso i “diversi” per idea politica, per religione o per una delle tante motivazioni che potessero comunque giustificare quella distruzione fisica e psichica dell’avversario, reale o ipotetico che fosse, in quella enorme macina di vite umane, che sono stati i Konzentrationslager nazisti.

Adesso siamo qua a guardarci intorno e – scusatemi l’espressione – ci vien da vomitare. Siamo andati in giro, nelle scuole soprattutto, perché “i giovani non sanno!” a strappar lacrime, ad ammonire, noi che nei Lager siamo diventati saggi, ma senza un progetto che fosse comprensibile e coinvolgente, ammettiamolo non abbiamo saputo elaborarlo né tanto meno comunicarlo. à inutile ~ascondersi dietro un dito. E una verità nuda e cruda. Oggi come oggi, con tutti i libri che abbiamo pubblicato, le mostre, i viaggi a quello che rimane dei campi, sul piano politico contiamo meno del due di briscola. Salvo rare occasioni, chi si ricorda più di noi? E allora ecco, di nuovo, la domanda: cosa sono tornato a fare? A testimoniare, d’accordo, e poi?

“Diamo alla memoria un futuro “Bellissimo. Ma, come? Con la Fondazione? E la sua culla dovrebbe essere in quel mortorio che è il Museo di Carpi? Ma sapete cosa si fa a Yad Vashem o a Washington? Non ditemi: ma quelli hanno soldi a palate. I soldi vanno dove ci sono le idee. E lì, come a Dachau, come a Düsseldorf le idee si sprecano. Basterebbe guardarsi intorno. Scopriremmo allora che in altri paesi c’è una generazione di giovani, figli e nipoti dei deportati, che ha raccolto il testimone e lo porta avanti, con la consapevolezza della propria missione. Questo fenomeno, da noi, è mancato. Le spiegazioni possono essere diverse, ma la responsabilità è di tutti noi. Purtroppo.

Poi, manco a farlo apposta, anche fra noi sono riemerse le diversità, le prevenzioni, le diffidenze. Compagni che pretendono che il loro Lager è stato più Lager del tuo e quando cerchi di fargli capire che non si possono fare raffronti, essi se ne vanno sbattendo la porta o chiudendosi nel loro splendido isolamento. Adesso avremo quello che potrebbe essere il nostro ultimo congresso. Temo che mi toccherà subire le solite litanie. Vorrei che non fosse solo un’occasione per ritrovarci per piangerci addosso tutti i nostri malanni fisici, morali e politici. Se il Fini è una specie di “Hannibal ante portas” ammettiamolo, è anche colpa nostra. Abbiamo camminato con la testa rivolta al passato. Non vorrei che davanti a noi si aprisse un baratro dal quale nessuno si salverà.

Compagni, diamoci una regola: tentiamo di far sì che il nostro congresso non sia solo celebrativo, ma propositivo. Misuriamo le forze nostre tenendo i piedi in terra. Verifichiamo se è possibile dare un futuro alla memoria. Se non ora, quando?

Teo Ducci