“Il primo sciopero”

Ai primi di marzo, improvvisamente, il reparto Attrezzamento, vicino al nostro, incrociò le braccia. Ricordo che alcuni operai entrarono trafelati nel nostro reparto urlando: “Si sono fermati… sono fermi… fanno sciopero… ” In breve l’eccitazione ci prese tutti e l’intera Caproni scioperò. Non senza accanite discussioni con chi era contrario o esitava, ritenendo quello sciopero (il primo dopo tanti anni) azzardato e pericoloso. A far superare le ultime resistenze furono le notizie arrivate (chissà come) di scioperi compatti di molte aziende e categorie di Milano (coi tranvieri in prima fila), Torino e Genova. I1 terzo giorno piombò alla Caproni uno dei massimi gerarchi del regime, Cianetti, che parlò alla mensa promettendo tre cose: comprensione per i sacrifici dei lavoratori, “punizione inesorabile dei profittatori” (compresi gli “imboscati”) e… “piombo per i traditori” che osavano speculare sulle sofferenze del popolo italiano per sabotare la Patria in armi. Lo sciopero terminò ma anche nel mio reparto si cominciò a parlare di politica, mai tutti insieme, naturalmente: lo potevo constatare dalla vetrata del mio ufficio e ne ebbi conferma dal mio capo reparto che un giorno mi confidò il suo antifascismo e la sua fatica a non trapelare, in Direzione, ciò che udiva nel reparto. Dopo il 25 luglio i partiti antifascisti uscirono dalla legalità, ma senza clamori: Badoglio aveva dichiarato che la guerra sarebbe continuata a fianco della Germania nazista e proprio il mese seguente Milano subì i bombardamenti aerei più pesanti.

” Il caos di settembre”

E venne l’8 settembre. Impiegati, operai, capi e dirigenti ne discutevano dappertutto: io correvo da un campanello all’altro per ascoltare e capire il senso generale di quei discorsi: quando tornai al mio posto trovai i capi squadra Restelli e Giussani intenti a raccogliere adesioni alla “Guardia Nazionale” ( così era intestato il foglio che firmai anch’io), una milizia armata da affiancare al nostro Esercito per respingere l’occupazione fascista già in atto. Ma le armi non furono trovate e il nostro Esercito si dissolse, mentre Badoglio, il re, il principe ereditario e altri dignitari di Corte erano fuggiti , gettando il paese nel caos e alla mercé della vendetta nazista. Col doppio insulto di “traditori badogliani” i tedeschi catturarono i nostri militari allo sbando per deportarli, su carri-bestiame, nei Lager in Germania. Noi dovemmo farci dare dei tesserini aziendali per evitare – se fermati – di essere scambiati per soldati in abiti civili. Furono giorni di grande frustrazione: ci parlavamo poco, non sapendo che cosa dirci. Con l’occupazione nazista e con la costituzione della Repubblica di Salò capimmo che andavamo incontro a tempi durissimi. I pochi fascisti “repubblichini” in divisa, o che tali si dichiaravano, e quelli che lo erano ma evitarono di dichiararlo fecero la cosa peggiore: diventarono i delatori dei propri compagni di lavoro, senza esporsi ad alcun rischio, agendo nell’anonimato. Non avevano motivo di essere orgogliosi della loro scelta di campo, specie quando cominciarono le prime atrocità contro i patriori catturati. Ricordo di averne visti in Galleria e nelle vicinanze, pesti e sanguinanti, con le mani incatenate, in mezzo a “Brigatisti Neri” o a “Legionari” della , “Decima Mas”: ognuno di quei torturati portava appeso al collo o doveva reggere un cartello ove era stato Scritto: “Sono un bandito!”

“Tempo di sabotaggi”

Altri del mio reparto avevano assistito, in provincia, a simili spettacoli e qualcuno aveva pianto avendo saputo di amici trucidati barbaramente dai nazifascisti. Ne parlavamo spesso e il discorso si allargava ai caduti in guerra e ai dispersi, perché ogni famiglia aveva un suo caro lontano di cui non sapeva più niente: forse era prigioniero, si sperava… Nessuno difendeva o giustificava quella tragedia che non riuscivamo a fermare: purtroppo noi dovevamo produrre aerei destinati a far durare lo sterminio della guerra e l’occupazione nazifascista. Benché si evitasse di parlare di sabotaggio (mai un solo accenno fu fatto), capivo che intorno a me la febbrile attività produttiva girava a vuoto: pezzi mandati al collaudo venivano scartati per difetti incomprensibili, lavorazioni appena iniziate erano subito sospese per mancanza di attrezzi o di materiale; quando tutto sembrava rimediato, i disegni non erano pronti oppure i calcoli risultavano troppo approssimativi; per la gran fretta, si diceva… Era in atto una guerra sotterranea, non dichiarata, apparentemente affidata al caso, eppure meticolosamente pianificata, certamente col concorso di qualche dirigente al massimo livello. Gli oltre 7.000 occupati, a Taliedo producevano ufficialmente due aerei al giorno, ma non sempre erano pronti per il volo; e per gli aerei finiti c’era un giro strano, tra stabilimenti, impianti, campi di collaudo e luoghi di consegna, con ancor più strani “ritorni” e “recuperi”. L’inverno fu ancor più duro del precedente, con gli Alleati che avanzavano lentamente verso Roma; fu allora che trovai nel mio cassetto copie clandestine dell'”Unità” e di “Nostra Lotta”.

“Polizia, aprite!”

Tentai invano di sapere come fossero finite proprio a me, ma poiché la cosa non mi spiacque mi preoccupai di farle leggere, naturalmente di nascosto e a un lettore per volta, come avevo intuito che bisognava fare. Un mattino del marzo 1944 scoppiò uno sciopero, con la stessa tecnica e con motivazioni analoghe a quello del marzo ’43: la fame e i disagi, le condizioni di lavoro… Ma questa volta fuori della Caproni trovammo carri armati tedeschi ed SS. Ci guardarono entrare con ostentata indifferenza, limitandosi a gesti e a poche parole con gruppi di nostri compagni di lavoro – per lo più giovani e ragazze – che si avvicinavano a loro per cercare di allentare la tensione e per mostrare che non avevano paura. Trascorso un breve tempo nei locali della Direzione, i comandanti tedeschi se ne andarono assieme alle SS e ai carri armati. La settimana era finita, quel sabato 11 marzo, ed io trascorsi come sempre la serata a casa, in via Ponte Vetero. Di notte il silenzio fu rotto dallo scalpiccio di passi sulle scale e subito dopo qualcuno bussò forte alta mia porta: “Polizia, aprite!” . Erano in quattro, piuttosto anziani in borghese, con un distintivo all’occhiello e parlavano con accento meridionale: “Abita qui Panizza Giandomenico? Dobbiamo portarlo con noi … “. Proprio in quell’istante suonò l’allarme aereo e gli inquilini del caseggiato si riversarono sulle scale per raggiungere il rifugio. Dopo un attimo di esitazione, quello che si era qualificato come un ex brigadiere, disse a mia madre: “Ce ne andiamo, diremo che c’é stato l’allarme, prima (e con la voce sottolineò quel “prima”) e che non lo abbiamo trovato ma domani lei, signora, deve venire al Commissariato … “. E mia madre ci andò: “Suo figlio é nella lista, se capita qualcosa dovremo venire a riprenderlo … ” apprese dal commissario.

” L’arresto a casa”

Che cosa fare? Mio padre, ammalato cronico, era lontano; di mio fratello maggiore, militare, non avevamo notizie; vivevo con mia madre, mia sorella minore e una zia paterna. Confidammo che data la mia giovane età (non avevo ancora diciassette anni) non sarebbero venuti a riprendermi subito. Il mattino del lunedì andai alla Caproni e appresi che due notti prima ne erano stati arrestati parecchi, compreso il capo reparto di mia madre, Carlo Annovazzi. Raccontai la mia vicenda e notai che tutti stavano zitti, poi qualcuno mi consigliò di scappare, subito… Ma non scappai: trascorsi la giornata fingendo indifferenza ma fantasticando dentro di me, com’era mia abitudine quando volevo guadagnar tempo ed evitare una decisione che non mi riusciva di prendere. Non era l’idea di dover stare lontano da casa che mi spaventava (ci ero abituato, avendo vissuto spesso separato dai miei fratelli, come loro in collegi o presso parenti diversi) quanto la prospettiva della fuga. Andare in montagna a combattere coi partigiani? Ma come, in treno o a piedi? E da chi? Il pensiero di dover usare le armi non mi piaceva, e poi, gracile com’ero e non abituato alle marce e alle fatiche, sarei stato il primo ad essere catturato. E se avessi dovuto subire le torture di quelli che avevo visto in Galleria o vicino a piazza Duomo? Alta fine riuscii a scacciare quegli incubi e la sera tornai a casa quasi sollevato, convinto che il peggio fosse oramai passato. Mi addormentai ma all’improvviso fui svegliato da pesanti colpi alla porta: erano tornati i poliziotti, gli stessi di due notti prima. Mi vestii alla meglio e me ne andai con loro dopo aver cercato di tranquillizzare mia madre, mia sorella e mia zia che protestavano e piangevano.

” L’ultima possibilità “

Non mi ammanettarono e quando fummo in strada mi invitarono a salire su un furgone; uno di loro, sfiorandomi con lo sguardo, mi disse quasi con dolcezza: “Non senti freddo? Perché non vai a prenderti la sciarpa?” Sorridendo, io risposi: “Noo, grazie … “. Il furgone si mise in cammino e dopo un po’ si fermò nei pressi di Porta Genova. Scesero tutti: “Tu stai qui, fai il bravo e ci aspetti … ” mi bisbigliò l’ex brigadiere. Quindi si allontanarono svoltando l’angolo. Avevano lasciato il portello del furgone semi aperto. Rimasto solo, avrei potuto scappare, ma era notte, i portoni erano chiusi e non vedevo in giro anima viva. Potevo fidarmi? E se mi avessero sparato addosso o avessero riferito che avevo tentato di fuggire? Di nuovo ebbi molta più paura di scappare che del seguito di quella avventura appena iniziata; ne ero incuriosito e provavo un certo senso di orgoglio. Mi sforzai di tranquillizzarmi e attesi il loro ritorno: non avevano trovato il capo reparto Attrezzamento, Celestino Maniscalchi, ma quando rientrai alla Caproni da Mauthausen egli mi spiegò che si erano rivolti soltanto alla custode. Quei poveri poliziotti di commissariato – rimasti a Milano dopo l’8 settembre, impossibilitati a raggiungere le famiglie nel Sud – rischiarono la loro vita o la deportazione per tentare di salvare altri sventurati, ma non poterono evitare di riempire il furgone. In centinaia fummo arrestati quella notte: operai, impiegati, tecnici di molte fabbriche, tutte le più grandi, e dei servizi pubblici, oltre cento soltanto della Caproni. Ci presero in consegna “Brigatisti Neri” e “Legionari” della “Decima Mas”, prima in piazza S. Fedele, poi in via Fatebenefratelli, quindi a San Vittore e di lì a Bergamo, in una caserma, dove ci fecero dormire sulla paglia.

“Verso Mauthausen”

Durante l’attraversamento della città verso la stazione ferroviaria, i tranvieri bergamaschi ci offrirono l’ultimo aiuto fermando le vetture le une accanto alle altre, in modo che la nostra colonna scortata dalle SS vi passasse in mezzo: qualcuno riuscì a nascondersi fra i tram e poté fuggire. Quasi tutti, però, fummo caricati su carri-bestiame piombati per una destinazione della quale ignoravamo l’esistenza: il campo di sterminio nazista di Mauthausen. E non sapevamo allora che già il 7 dicembre 1941 il Feldmaresciallo Keitel, Comandante della Wermacht – su direttiva del Führer – aveva emanato un decreto intitolato N.N. (“Nacht und Nebel”, Notte e Nebbia) con lo scopo di seminare il terrore tra i lavoratori e le popolazioni dei territori europei occupati per dissuaderli da ogni attività ostile al Grande Reich e dall’appoggio ai movimenti della Resistenza. Nel decreto e in successivi aggiornamenti Keitel aveva spiegato che per ottenere il terrore occorreva arrestare i sospetti al loro domicilio, nel cuore della notte, facendoli sparire senza lasciare traccia di sé, nella nebbia dell’ignoto… Nessuno ci aveva incriminati di qualcosa, però; non fummo neppure interrogati, né si tentò di appurare se, per caso, qualcuno di noi era stato scambiato per un altro, chi aveva furtivamente fornito i nostri nominativi, poteva essersi sbagliato o avrebbe potuto farlo per vendicarsi, per motivi personali anche insignificanti. Niente: fummo avviati allo sterminio e tornammo in pochi, il dieci per cento dei partiti. I collaborazionisti dei nazisti, che fornirono i nostri nominativi, fecero anch’essi sparire nella nebbia dell’ignoto le tracce della loro delazione. Nessuno ha mai rivendicato la paternità di quegli elenchi, eppure chi ci denunciò sapeva quale era il nostro destino!

Giandomenico Panizza