Al Ministro della Cultura del Land di Brandeburgo Steffen Reiche

 

Sono la figlia di un’ex-deportata politica italiana nel KZ di Ravensbrück. Ero già stata a visitare il KZ nel 1969 con mia madre, Maria Arata, autrice anche di un diario della sua deportazione, edito in Italia nel 1979 presso la casa editrice Mursia.
Sono ritornata a Ravensbriick il 23 aprile scorso per rendere omaggio alle sofferenze di mia Madre, ora scomparsa e delle sue compagne e per festeggiare l’anniversario della Liberazione.
Ho apprezzato il contenuto della Sua lettera indirizzata agli ospiti, nella quale esprime la sua comprensione per il risveglio dei ricordi che il ritorno nel KZ comporta sia per i diretti protagonisti che per i loro familiari.
Ho ritenuto perciò, tornata in Italia, di poterLe esprimere alcune osservazioni sull’organizzazione dei festeggiamenti a Ravensbrück:
1) deploro che i discorsi pronunciati dalle autorità tedesche nella Piazza dell’Appello non siano stati immediatamente tradotti alla massa dei presenti, giunti da tutti i paesi che hanno pagato il loro tributo alla deportazione nazista.
Ancora una volta la lingua tedesca, come è attestato in tutta la memorialistica Europeadella deportazione, ha assunto nei confronti degli Haftlinge il sopravvento.
Come Lei sa, ed è documentato nelle ricerche sul “trauma della deportazione” da illustri scienziati, il valore simbolico ed evocativo della lingua tedesca in quel contesto, in quell’ora, in quel giorno, in quel luogo non era eliminabile, anche se il sole risplendeva!
Non c’è stato rispetto per la Babele linguistica degli Haftlinge, giunti questa volta come uomini liberi e portatori di una propria lingua e di una propria cultura, tanto più che il discorso della francese Rose Guérin è stato prontamente tradotto in tedesco.
Non c’è motivo tecnico che possa cancellare la sensazione di una opportunità mancata da parte dell’organizzazione.
Osservo inoltre che lo stesso monolinguismo tedesco impera nel Museo del KZ di Ravensbrück e nel Bunker-Museo.
2) reputo che si debba considerare con molta attenzioneanche la conservazione di ciò che appartiene ormai alla storia dell’umanità: la conservazione del KZ deve attenersi agli stessi criteri con i quali si mantengono e restaurano i Beni Culturali: perciò mi sembrerebbero falsificanti la natura del luogo le intonacature a bianco troppo vivo, le “ripuliture” o le cancellazioni dei segni della storia, pur nella doverosa manutenzione degli edifici.
Anche l’iconografia del Museo deve essere attentamente sorvegliata: non si deve temere la crudezza delle immagini relative alle condizioni delle deportate a Ravensbriick e preferire qualcosa di più rassicurante.
Le donne che vestite di una linda uniforme, non rapate, siedono alle macchine da cucìre del reparto “Sartoria”, non mi sembrano affatto rappresentative delle condizioni e delle vesti delle deportate di Ravensbriick.
Di fronte a tali immagini addolcite, non è troppo pessimista ritenere che tra qualche anno qualche revisionísta potrà dire che Ravensbriick e altri KZ erano semplici campi di lavoro forzato, come la storia dell’umanità ha talora già conosciuto.
La migliore riconciliazione tra i popoli nasce invece dal coraggio di guardare in faccia alla verità e la partecipazione comune a un lutto nasce dall’accettazione della realtà di quel lutto.
La ringrazio dell’attenzione e saluto cordialmente.

Giovanna Massariello Merzagora professore associato presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Verona