Nato ad Agordo il 9 maggio 1918, don Raffaele è di famiglia operaia; il padre Giobatta lavorò soprattutto nelle miniere di Agordo. La madre, Anna Conedera, è rimasta con il figlio sacerdote fino all’età di 90 anni.
Come mai la vocazione?
Entrambi i genitori erano religiosi, anche se mio padre era poco praticante. Conobbi ad Agordo un sacerdote che sapeva trattare con i bambini e lo seguii con convinzione: da lì è nata la mia vocazione; attorno al 1930. Si chiamava don Vittorio De Gol, antifascista per la pelle, era anzi sul libro nero dei fascisti. Originario di San Gregorio era stato parroco a Padola di Comelico. La mia prima idea era quella di fare il missionario, ma poi questo sacerdote mi consigliò di studiare come seminarista in provincia. Studiai a Feltre con don Giulio Gaio, un altro prete che era stato messo al bando dal fascismo, come antifascisti furono i miei insegnanti don Angelo Clienet e don Candido Fent. Passai quindi al seminario di Belluno. L’ultimo anno di studio mi ammalai di pleurite, ragione per cui fui costretto a restare a casa, e ciò dalla mia consacrazione – giugno 1943 – fino al novembre dello stesso anno, quando fui mandato a Vodo di Cadore come bastone della vecchiaia di don Luigi Da Rin. Nel ’44 successero gli avvenimenti che mi coinvolsero nella Resistenza.
Inizialmente, date le difficoltà conseguenti alla guerra, davo aiuto ai paesani in genere. Anche i partigiani, accampati sul monte Rite e, più tardi, sopra Vinigo, scendevano a chiedere aiuto, soprattutto viveri. Un modo di stare dalla parte dei paesani era anche quello di avere relazioni con la gendanneria di San Vito di Cadore, ad esempio per quanto riguardava le questioni annonarie.
Lì conobbi il signor Ragni, interprete, che era schierato dalla parte nostra.
Ebbi vere e proprie relazioni con i partigiani quando ci fu il primo rastrellamento nella zona del rifugio “Venezia” sul Pelmo. Scendendo verso Vodo di Cadore due partigiani furono visti dai tedeschi e da loro attaccati con bombe a mano. Uno morì subito (“Bill) l’altro (“Penna”) rimase ferito, quindi catturato e portato via; ebbi notizia che più tardi fu ucciso anche lui. Col permesso della gendarmeria organizzai il funerale a “Bill”; mi era stato richiesto di dire alcune parole e sottolineai che il sacrificio dei nostri morti si univa a quello di Cristo per la redenzione dell’umanità e per la nostra libertà. La chiesa di Vodo era piena di gente e così il cimitero; erano venuti anche da altri paesi.
Si accompagnò la salma con garofani bianchi e rossi misti al verde per richiamare la bandiera italiana; così pure era anche il cuscinetto sopra la bara. Fu una manifestazione molto significativa. Era l’agosto del ’44.
Mi misi poi alla ricerca di un altro partigiano: correva voce che fosse caduto: i tedeschi stessi arrivando in paese, con “Penna” come ostaggio, ce l’avevano riferito. Salito verso il monte Rite, trovai lì alcuni partigiani tra cui il dott. Riccardo Talamini che era venuto a ritrovare i suoi cari dopo essere stato aggregato alle truppe convogliate a Vercelli in partenza per l’addestramento verso la Germania. Arrivato alla stazione di Venas, il dott. Talamini scese e andò direttamente sul monte Rite.
Da quel momento i rapporti con i partigiani si intensificarono, anche se, in seguito ai rastrellamenti, quella base fu abbandonata e il Btg. “Bepi Stris” della Brg. “Calvi” prese posizione sopra Vinigo con il compito di sabotare la ferrovia Calalzo-Dobbiaco. I vagoni, pur segnati con la Croce Rossa, trasportavano anni, che poi, via Belluno-Padova, giungevano al fronte.
I partigiani, accortisi di questo fatto, operarono per bloccare la ferrovia; un obiettivo era il ponte tra Venas e Peaio. Di giorno i tedeschi lo riattivavano per quanto era possibile, di notte si udiva l’esplosivo che lo faceva saltare. 1 partigiani ebbero anche il coraggio di bloccare il treno usando armi automatiche.
L’occasione di vedere i partigiani era data anche dal fatto che essi avevano bisogno di cibo; Sandro Gallo (Garbin) mi chiese il favore di tenere dei viveri in canonica, il che è stato fatto. Li aiutai inoltre a curare qualche loro ferito.
I tedeschi sapevano di questa sua attività?
Non subito. Più tardi, mi sembra fosse ottobre, il sig. Ragni dell’albergo Marcora mi mandò un giovanotto bicicletta per avvisarmi che c’era in corso un forte rastrellamento nella zona Vinigo. lo avvisai i partigiani tramite alcuni giovani, tra i quali il fratello del dott. Talamini, Piero, che conosceva le loro basi sopra Vinigo, in quanto aveva già portato loro del pane. Ragni aveva detto così: consigliate i partigiani di non combattere perché, anche se ci fosse stato un solo morto tedesco, per rappresaglia avrebbero bruciato Vinigo. I partigiani si ritirarono fin sulle rocce dell’Antelao e rimasero là nascosti; mi riferirono poi che essi avrebbero potuto attaccare i tedeschi con facilità, ma li lasciarono passare nella valle sottostante per impedire rappresaglie contro il paese. Qualcuno però si accorse che io avevo avuto contatti in questo frangente e fui denunciato.
Da chi?
Era stata una signorina, che poi non ha più potuto restare in Italia. Dopo la guerra venne a trovarmi a Feltro, dicendomi che in paese correvano delle voci che l’accusavano di spionaggio e voleva essere giustificata. Le risposi che sarei andato a parlare con quelli del CIN del Cadore perché non le facessero del male, però non potei dire che non fosse coinvolta: me lo aveva detto lei stessa.
Che atteggiamento aveva la popolazione verso i partigiani?
Alcuni collaboravano, ma altri erano piuttosto tiepidi, c’e anche chi aveva simpatia per i tedeschi possodendo delle gelaterie in Germania e quindi interessi molto concreti. Inoltre il prelevamento di viveri non portava certo a simpatie verso i partigiani. Ma essi avevano pur diritto di vivere!
Se i partigiani non fossero stati aiutati, come avrebbero potuto resistere in montagna? L’aiuto proveniva soprattutto dalla povera gente; i ricchi, pur avendo le cantine piene, non davano nulla, a meno che i partigiani non se lo prendessero.
Mi sembra che l’attività da loro svolta fosso ottima: impedire che le armi e munizioní arrivassero al fronte significava abbreviare la guerra. Perciò io definisco “santa” la giornata del 25 aprile, perché ricorda la data della libertà recuperata attraverso il sacrificio di migliaia di giovani.
Tornando alla mia vicenda personale, ricordo che ero stato a trovare i miei familiari ad Agordo; nel ritorno, in bicieletta, presi la strada per il passo Falzarego per evitare il più possibile di incontrare tedeschi. Mi andò bene, ma non così in un successivo viaggio in treno a Belluno. A Calalzo trovai la sorella del dott. Talamini, Nelda, la quale mi avvisò che i tedeschi erano venuti in canonica ad arrestare il parroco don Luigi Da Rin e la domestica e che cercavano me. La domestica, Maria Gregori, è stata trattenuta, mentre il parroco era stato liberato. Egli fu piuttosto coraggioso perché alla domanda dei tedeschi tesa a conoscere il pensiero degli italiaini egli rispose: semplicemente quello che pensereste voi se gli italiani fossero gli invasori della Germania. Nel treno erano saliti due gendarmi con un maresciallo; per evitarli scesi a Peaio chiedendo ospitalità presso una famiglia. Era il 12 iovembre del ’44.
Nella stessa notte mi rifugiai nell’asilo di Vodo, dove celebrai la messa. La mia intenzione era quella di rimanere nascosto lì, ritirandomi poi ad Agordo. Mi venne invece a trovare il parroco, accompagnato dalle suore dell’asilo, pregandomi di lasciarmi prendere dai tedeschi, che sapevano tutto.
Così mi consegnai ai tedeschi. Mi interrogarono nella caserma di Tai. Continuavano a battere sempre sulle stesse cose, relativamente cioè all’organizzazione partigiana. Quello che potevo ammettere lo ammettevo, su quello che mi sembrava compromettente tacevo. Per esempio, non ammisi che durante il rastrellamento mi ero preoccupato di avvisare i partigiani: c’era un alibi, infatti avevo mandato altri. Steso il verbale in tedesco, me lo tradussero: conteneva anche delle bugie, così non lo firmai, e fu la mia salvezza.
Non fu maltrattato durante l’interrogatorio?
No, soltanto molta paura, e durezza nelle domande. Uscito dalla stanza dell’interrogatorio, lungo il corridoio della caserma uno dei militari armati invece di farmi entrare in cella mi dirottò verso la piazza d’armi. C’erano soldati dappertutto. Pensai che mi fucilassero; invece mi condussero al portone d’entrata della caserma, dove una donna mi aveva portato del cibo inviatomi dall’arcidiacono del Cadore, don Angelo Fiori. Vidi invece percuotere i partigiani selvaggiamente. Assistii alla bastonatura di un giovane, che scappando si era rifugiato dove io mi trovavo: fu ripreso e picchiato ancora, non si riconosceva più la sua faccia.
Due giorni dopo ci portarono a Bolzano in treno, sul carro bestiame. Eravamo 15 prigionieri con 15 gendarmi, uno per ciascuno. Il 13 novembre ero stato arrestato, il 16 dello stesso mese ero già al campo di concentramento.
Cosa accadde a Bolzano?
Fui costretto a fare lavori pesanti: siccome non c’erano partenze di detenuti per la Germania volevano allargare l’area del campo. Inoltre, insieme ad altri, ci caricavamo sulle spalle antenne di linee elettriche e telefoni. che nei pressi del campo per portarle lontano. Non ci fu nessuna differenza di trattamento tra me, prete, e gli altri. Dovetti lasciare l’abito talare e vestire la tuta come tutti i prigionieri, con il triangolo rosso dei politici: 6.447 il mio numero di matricola. Non potei svolgere liberamente la mia funzione di sacerdote; tutti però sapevano che io ero tale: la sera, dopo la conta, andavamo nel blocco ove avevamo i nostri pagliericci e recitavo i rosari in tre gruppi diversi. C’erano parecchi uomini di S. Pietro di Cadore, con cui lavoravo assieme. Non li ho più rivisti dopo la guerra.
Arrivò nel lager come prigioniero anche il segretario comunale di Vodo, Antonio Filippi, perché, secondo i tedeschi, avrebbe dovuto testimoniare contro di me e invece non disse nulla, pur sapendo le cose. Era in una situazione peggiore della mia, perché finì in isolamento, in celle appena costruite, umide, dove le coperte erano gonfie di umidità, ed era pieno inverno.
Io continuai a lavorare anche nei giorni più rigidi sotto la neve, in zoccoli; ci davano un caffè la mattina, una minestra ed un panino nero e piccolo a mezzogiorno, una minestra alla sera: quelli che lavoravano avevano due pezzi di pane. Nelle celle di isolamento alcuni sono impazziti; altri sono morti di broncopolmonite.
Di tanto in tanto mia sorella Gigetta, da Agordo, mi portava da mangiare e inoltre mi arrivavano, non so da dove, dei pacchi. Attraverso la bocca lupo della scelta passavo pane e sigarette a Filppi.
Devo dire che trovai molta solidarietà nel campo di concentramento e potei fare del bene; ho anche ringraziato il cielo di avermi mandato là perché c’era bisogno di un prete. Ce n’erano comunque altri: don Andrea Gaggero di Genova ed un altro di Savona, di cui non ricordo il nome; quando lascai il campo entrò anche un certo don Gino di Bolzano colpevole di avere aiutato i partigiani. Si consolava tanta gente, la si confessava; veniva a sfogarsi con noi e a chiedere consigli. Assistei anche a cose terribili. Vidi un medico maltrattato e picchiato solo per divertimento dei carcerieri; senza motivo un falegname venne battuto violentemente con un martello e lo picchiarono sulla testa. Indicandoci un morto sul cortile i carcerieri ci dissero: così finisce chi tenta di scappare. Tramite il maestro Palmeri di Feltre, che ogni tanto usciva per incombenze dal campo (faceva il facchino), potei inviare una lettera al mio vescovo Bortignon. Se l’era messa nelle scarpe e l’aveva consegnata alla moglie. Nella lettera scrivevo che non ero stato processato regolarmente e che non avevo firmato il verbale d’interrogatorio. Il vescovo intervenne ottenendo il mio trasferimento dal campo alle carceri giudiziarie a disposizione del tribunale speciale. Così successe pure per il segretario comunale Filippi. Ci interrogarono più volte. La prima volta ci trattarono molto male, per fortuna solo a parole, soprattutto dal dott. Hölz, un avvocato di Bolzano.
Per garantire il nostro trasferimento, il vescovo aveva parlato con un certo dott. Sailer, austriaco se ben ricordo, presidente del tribunale speciale. Lo aveva incontrato di nascosto a Belluno, perché entrambi pare fossero pedinati dalle SS. In quella occasione Sailer avrebbe detto al vescovo che avocava a sé la mia causa, ma se le accuse fossero state provate avrei avuto come minimo la fucilazione.
Le cose invece si misero bene; già dopo il primo interrogatorio sia io che Filippi fummo trattati meglio. A Bolzano era arrivata la inoglie di Filippi. Si recò in tribunale a chiedere informazioni, ma fu cacciata fuori di malo modo. Si mise a piangere fuori dell’edificio; passò nei pressi un signore che, informatosi del motivo dello sconforto, la rassicurò, dicendole che apparteneva al CLN di Bolzano: avrebbe scritto una lettera minatoria all’avv. Hölz, che, se non si fosse comportato in maniera migliore, avrebbe dovuto attendersi qualcosa di brutto. Non so se fu questo il motivo, fatto sta che l’istruttoria venne riaperta. Filippi, nell’attesa del nuovo processo, fu mandato a casa; io invece fui inviato alle carceri di Silandro in Val Venosta, dove conobbi altri quattro preti, tutti altoatesini, e inoltre Gino Lubich e Giorgio Tosi, avvocato di Padova.
Gino Lubich è fratello di Chiara, la fondatrice dei Focolarini; sono stato in cella assieme.
Quando ritornò a casa?
Fu mia sorella ad annunciarmi la liberazione. Il giorno dopo un gendarme mi portò a Bolzano a firmare una specie di contratto di scambio con dei prigionieri tedeschi in mano ai partigiani. Questo documento è ora pubblicato nel libro di L. Boschis, Le popolazioni del bellunese nella guerra di liberazione. 1943-1945 (Belluno 1986), a p. 71. Uscii libero il 17 marzo. C’erano con me Armando Osta di Padola di Comelico, condannato a morte, la signora Giovanna Rech di Seren del Grappa e due giovani, Ruggero Sebben e Valentino Balestra, entrambi di Fonzaso.
Tornai nella mia casa di Agordo, dopo di che mons. Bortignon mi chiamò al santuario di S. Vittore, a Feltre; purtroppo non vi trovai don Giulio Gaio, perché si era allora trasferito a Vittorio Veneto.
Cosa pensava il vescovo del movimento partigiano?
Con Bortignon mi ero già incontrato prima dell’arresto, in occasione di una cresima ad Agordo e avevamo parlato a lungo della situazione. Lui vedeva volentieri i partigiani, ma raccomandava prudenza per non compromettere le popolazioni. Anche a me consigliò di aiutarli con prudenza. Non disapprovò neppure il lavoro che avevo svolto. Quando ritornai dal lager di Bolzano e andai a trovarlo, egli mi abbracciò.

(Intervistatore F. Vendramini, deregistrazione di G.C. Marcon; febbraio 1990).