Sentenza della Corte Militare di Appello di Verona

N. 99/2001 R.G.
N. 235/2001 R.DIB.

REPUBBLICA ITALIANA
In Nome del Popolo Italiano

CORTE MILITARE DI APPELLO
Sezione distaccata di Verona

Composta dai signori

Dr. Vito Nicolò DIANA                    Presidente
Dr. Franco ANTONELLI                  Consigliere
Dr. Gianni BALLO                          Consigliere
Col. CC. Antonio MAIONE             Giudice militare
Ten. Col. E.I. Giovanni DONATO   Giudice militare

Con l’intervento del Pubblico Ministero in persona del Dott. Giuseppe ROSIN e con l’assistenza dell’Assistente Giudiziario S. Ten. Valentino GERI ha pronunciato la seguente

sentenza

nel procedimento penale a carico di SEIFERT Michael , nato a Landau (Ucraina) il 16.03.1924 e residente a Vancouver (Canada), 5471 Commercial Street, domicilio per le notifiche, ai sensi dell’art. 169 c. 1 ultima parte C.P.P., presso i difensori di fiducia avv. Roberto BUSSINELLO del Foro di Verona ed Avv. Lorenzo BORRE’ del Foro di Roma.

IN SEGUITO

all’appello proposto dal difensore di fiducia avverso la sentenza in data 24.11.2000 emessa dal Tribunale Militare di Verona.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – SEIFERT Michael è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di concorso in violenza con omicidio contro privati nemici, aggravata e continuata (artt. 81 cpv., 110, 575, 577 n.3, 61 n.4 c.p.; 13 e 185 c.p.m.p.)per aver cagionato la morte, durante lo stato di guerra tra l’Italia e la Germania, mentre prestava servizio nelle forze armate nemiche con il grado di Gefreiter (o Rottenfhurer) delle S.S. e mentre svolgeva la funzioni di addetto alla vigilanza del campo di concentramento di Bolzano, tra il dicembre 1944 e l’aprile 1945, da solo o in concorso con altri militari, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, senza necessità e per cause non estranee alla guerra, di almeno diciotto persone prigioniere, agendo con premeditazione e crudeltà ed adoperando sevizie nei loro confronti, così come specificato nei quindici punti dell’imputazione.

Con sentenza contumaciale del 24 novembre 2000 il Tribunale militare di Verona ha condannato l’imputato alla pena dell’ergastolo, limitatamente agli omicidi di cui ai nn. 5,6,7,8,9,11,12,14 e 15 della rubrica, nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili (rimettendole per la liquidazione avanti il giudice civile), al pagamento a favore delle stesse delle spese processuali, nonché al pagamento di una provvisionale a favore della p.c. A.N.E.D.-A.N.P.I. di lire centomilioni.

Il Collegio scaligero ha invece assolto il giudicabile dalle rimanenti imputazioni per non aver commesso i fatti.

Il T.M. ha comminato la pena perpetua avendo ritenuto che all’esito dell’istruttoria dibattimentale era risultato pacificamente acclarato che il SEIFERT: 5) tra il 20 gennaio ed il 25 marzo 1945, in concorso con altro militare, aveva ucciso un prigioniero ebreo di circa quindici anni lasciandolo morire di fame; 6) tra fine febbraio ed inizio marzo 1945, in concorso con altro militare, aveva usato violenza carnale nei confronti di una giovane donna incinta, quindi le aveva lanciato addosso secchi di acqua gelida ed infine la aveva uccisa; 7) nella notte tra il 31 marzo ed il 1° aprile 1945, in concorso con altro militare, aveva violentemente bastonato il prigioniero PEZZUTTI Bortolo e quindi lo aveva ucciso squarciandogli il ventre con un oggetto tagliente; 8) nel marzo 1945, in concorso con altri militari, aveva ucciso con pugni e calci sul piazzale del lager un prigioniero che aveva tentato la fuga; 9) tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 1945 sul piazzale del lager, in concorso con altri militari, aveva colpito con calci due internati che poi aveva ucciso con colpi di arma da fuoco; 11) tra fine gennaio ed il febbraio 1945, in concorso con altro militare, aveva torturato un giovane prigioniero, infilandogli tra l’altro le dita negli occhi, fino a provocarne la morte; 12) tra il 1° ed il 15 febbraio 1945, in concorso con altro militare, aveva ucciso per strangolamento le prigioniere ebree LEONI Giulia in Voghera e VOGHERA Augusta in Menasse, madre e figlia, dopo aver loro versato addosso acqua gelida; 14) in un giorno imprecisato del febbraio o marzo 1945, in concorso con altro militare, aveva picchiato con un manganello un giovane italiano fino a provocarne la morte; 15) in data anteriore e prossima al Natale 1944, in concorso con altro militare, aveva cagionato la morte di un prigioniero che aveva tentato la fuga, dopo averlo legato alla recinzione del campo e percosso selvaggiamente, alla presenza di tutti gli altri prigionieri.

Per quanto riguarda la regiudicanda oggetto del presente appello, il T.M. ha osservato che non poteva seriamente dubitarsi dello “status” militare dell’imputato, secondo i criteri di identificazione delle persone soggette alla legge penale militare di cui agli artt. 1 e 2 c.p.m.p.: ciò in quanto costui, oltre ad appartenere alle S.S., e cioè ad un corpo inquadrato, con compiti sia di polizia che di combattimento nelle Forze armate tedesche (Cass. 10.2.1997, Priebke), era impiegato in territorio di occupazione (Alpenvorland) ed in un’attività ( la sorveglianza di civili catturati in operazioni di rastrellamento anti-partigiane o presi come ostaggi siccome parenti di arruolati che avevano disertato) strettamente connessa ai fini militari del Terzo Reich.

In ordine invece alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il primo Giudice ha sottolineato che tale decisione era stata presa non avendo riguardo all’astratta gravità della fattispecie contestata, bensì con riferimento ai criteri indicati nell’art. 133 c.p.

In particolare: le modalità delle azioni violente ascritte al SEIFERT avevano denotato la mancanza assoluta di rispetto non soltanto nei confronti dei soggetti passivi, ma della vita e dell’umanità in sé considerate, come valori collocati alla base della civiltà «moderna» in contrapposizione alla più cupa barbarie dei tempi antichi; le condotte contestate risultavano aggravate in parte dalla forma più intensa del dolo (quello di premeditazione) e tutte dall’uso di atroci sevizie; la capacità a delinquere dimostrata dal reo nonostante la giovane età all’epoca dei fatti poteva essere definita solamente con l’aggettivo «impressionante»; dopo i fatti, malgrado il lungo tempo trascorso, l’imputato non aveva manifestato il benché minimo interesse per le vittime delle sue scellerate azioni; il SEIFERT, ignorando letteralmente il processo aveva così dimostrato la mancanza di qualsivoglia resipiscenza e dunque una personalità del tutto negativa.

Alla luce delle suddette considerazioni, pertanto, nessun significato di rilievo poteva essere riconosciuto, secondo il Collegio scaligero, ad elementi quali la giovane età del giudicabile all’epoca dell’accaduto o la sua attuale età avanzata, la sua presunta incensuratezza penale ed il lungo tempo trascorso dai fatti per cui era giudizio.

Avverso la suddetta decisione ha interposto appello il difensore di fiducia eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione del Tribunale militare di Verona e nel merito lamentando la mancata concessione delle attenuanti generiche.

Con riferimento all’eccezione preliminare l’appellante osserva che il primo Giudice, che pur si era soffermato a lungo nell’argomentare la propria giurisdizione rispetto a procedimenti nei quali erano coinvolti appartenenti alle S.S. e aveva considerato in particolare che il SEIFERT vi faceva parte col grado di caporale, aveva invece trascurato di considerare il fatto, emergente da numerose testimonianze, che l’imputato si trovava nel campo di concentramento di Bolzano come detenuto.

Poiché peraltro non risultava che tra gli internati vi fossero anche soldati appartenenti alle S.S. o all’esercito tedesco in regime di detenzione, e che le deposizioni rese non concordavano sul fatto che il giudicabile indossasse l’uniforme dell’«Ordine nero», risultava plausibile che questi, in seguito al delitto per il quale era detenuto, avesse perso la qualifica di militare e fosse quindi internato nel lager di Bolzano come civile, «e che in qualità di ex S.S. fosse di ausilio al Cologna Albino nel mantenere l’ordine all’interno del lager stesso».

Di conseguenza, il T.M. di Verona difettava di giurisdizione trattandosi di reati commessi da un civile in tempo di guerra.

Con riferimento alla seconda doglianza l’appellante ammette che le argomentazioni al riguardo del Giudice di prime cure apparivano sicuramente idonee a giustificare il diniego delle richiese attenuanti ex art. 62 bis c.p., ma che tuttavia esistevano altri fattori che potevano invece favorire un giudizio positivo alla loro concessione.

Rileva infatti il difensore che l’assenza di condotte criminose giuridicamente rilevanti nel tempo susseguente al reato, l’attendibile prognosi di non recidiva e la ormai affievolita capacità a delinquere, desumibile dall’età avanzata dell’imputato ed al tempo assai risalente del commesso reato, erano elementi che avrebbero dovuto indurre il T.M. a concedere le attenuanti in questione.

Inoltre si sarebbe dovuto tenere nel debito conto il particolare contesto storico-politico nel quale i fatti erano stati commessi, caratterizzato dalla particolare recrudescenza ed animosità tipiche dello stato di guerra, e quindi idoneo, a giudizio della difesa, per ridimensionare ed attenuare il peso degli avvenimenti giudicati.

Viene inoltre evidenziato che per episodi analoghi a quello del presente processo erano invece state concesse le attenuanti ex art. 62 bis c.p. dalla Sezione Speciale della Corte d’ Assise di Bolzano che, nel 1946, aveva giudicato per atrocità commesse sempre nel lager di Bolzano sia GUTWENIGER Carlo che COLOGNA Albino.

Altro motivo per il quale si appalesava necessaria una attenuazione della pena era che il SEIFERT doveva ritenersi mero esecutore di disposizioni impartitegli «dall’alto», soprattutto dal predetto COLOGNA.

Pertanto il difensore appellante chiede, in principalità, la declaratoria di difetto di giurisdizione dell’A.G.M. ed in subordine la concessione delle circostanze attenuanti generiche, da ritenersi prevalenti o quantomeno equivalenti sulle contestate aggravanti, con conseguente riduzione della pena ai minimi edittali.

2 – All’odierna udienza la difesa ha preliminarmente eccepito la nullità dell’avviso ex art. 169 co.3 c.p.p. in quanto redatto in lingua inglese e non , come previsto dall’art. 63 disp. att. c.p.p., nella lingua ufficiale dello stato di nascita dell’imputato (nel caso di specie l’ucraina). E comunque, siccome le lingue ufficiali del Canada sono l’inglese ed il francese, difettava la traduzione in quest’ultima lingua.

La Corte, come da ordinanza allegata al verbale, ha rigettato la suddetta eccezione in considerazione della «ratio» della normativa richiamata, attuativa peraltro dell’art. 6 n.3 lett. a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che è quella di garantire all’accusato di essere informato in una lingua a lui comprensibile sulla natura ed i motivi dell’accusa mossagli.

Poiché dagli atti risultava pacificamente acclarato che il SEIFERT risiedeva da diversi decenni a Vancouver, città situata nel Canada anglofono, poteva pertanto ritenersi che l’atto in questione nella sua traduzione in inglese avesse sicuramente prodotto quella informata ed effettiva conoscenza sulla natura dell’accusa che la normativa richiamata intende garantire, e che quindi nessun diritto difensivo era stato violato o compresso.

Inoltre il P.G.M. alla luce dello «jus superveniens» rappresentato dalla legge 5 ottobre 2001 n.367 ha prodotto, nulla opponendo la difesa, «affidavit» certificativi della documentazione proveniente dalla Procura di Dortmund (Germania) e già acquisita agli atti.

La Corte ha poi acquisito la documentazione richiesta dai difensori compendiantesi, essenzialmente, nelle dichiarazioni di Carl Titho, all’epoca dei fatti comandante il lager di Bolzano, e di Padre Benno Burghardt, sacerdote cattolico dell’arcidiocesi di Vancouver.

3 – All’esito del dibattimento il P.G.M. e le parti civili hanno concluso per la conferma dell’impugnata sentenza, mentre i difensori hanno notevolmente ampliato il «thema decidendum» già cristallizzato nei motivi di impugnazione deducendo ulteriori profili riguardanti il difetto di giurisdizione dell’A.G.M. e sollevando nuove eccezioni procedurali.

Con riferimento ai primi, il difensore ha rilevato che siccome era certo che il SEIFERT aveva commesso almeno sette degli omicidi per cui è intervenuta condanna quando era minore di anni ventuno, e che per i rimanenti due poteva ritenersi dubbia la collocazione temporale indicata in imputazione, l’imputato doveva essere giudicato dal Tribunale per i minorenni, quantomeno per quegli episodi in cui era certa la sua minore età.

Inoltre si eccepisce che le uccisioni avvennero per ragioni di mera persecuzione politica o razziale e non per finalità collegate alla guerra, di talché non risulterebbero inquadrabili nella fattispecie di cui all’art. 185 c.p.m.g., ma integrerebbero reati comuni di competenza dell’A.G.O.

Ancora, il SEIFERT in quanto appartenente alle S.D. e non alle S.S. non aveva «status» di militare.

Con riferimento, invece, alle suaccennate nuove eccezioni procedurali, la difesa chiede la declaratoria di nullità dell’avviso di cui all’art. 169 c.p.p. per violazione dell’art. 63 disp. att. c.p.p. per ambiguità del termine «private enemies», ovvero, in subordine, per violazione dell’art. 6 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo per mancata traduzione degli atti notificati all’imputato presso il difensore e mancata indicazione dettagliata.

Si eccepisce inoltre l’illegittimità costituzionale ex artt. 3 e 24 Cost. del predetto art. 63 per mancata previsione che la notifica in una lingua diversa da quella dello stato di nascita dell’individuo sia possibile solo ove tale conoscenza risulti provata agli atti.

Si eccepisce ancora la violazione dell’art. 164 c.p.p. per mancata rinnovazione dell’avviso ex art. 169 c.p.p. a conclusione delle singole fasi, trattandosi di domicilio determinato e non di domicilio eletto e/o dichiarato.

Si chiede infine l’applicazione dell’amnistia ex art. 2 lett. b) D.P.R. 332/66, in quanto trattasi di reato connesso (ex art. 45 n.2 c.p.p. 1930) con reati politici commessi da cittadini italiani (COLOGNA, MITTERSTIELER, KOPPELSTATTER ed altra).

4 – Infondate sono le doglianze difensive relative alla giurisdizione.

Osserva innanzitutto la Corte che nessun rilievo può essere attribuito alla circostanza che l’imputato all’epoca dei fatti contestati non avesse ancora compiuto ventuno anni (che a quel tempo rappresentavano, almeno per la legislazione italiana, la maggiore età) dal momento che è pacifico che non ne aveva meno di diciotto. Questa è infatti sempre stata per il legislatore nazionale la condizione per incardinare la competenza del Tribunale per i minorenni (v. art. 4 co.II R.D.L. 20 luglio 1934 n.1405 -Istituzione e funzionamento del Tribunale per i minorenni- ed art. 3 D.P.R. 22 settembre 1988 n.448 – Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni-).

Con riferimento invece all’eccezione relativa alla natura politica e razziale delle uccisioni, e quindi per finalità non collegate alla guerra, questo Collegio, oltre a condividere sul punto le precise osservazioni del T.M., rileva che i prigionieri del lager di Bolzano erano stati catturati dai tedeschi in quanto cittadini di uno Stato nemico, in conseguenza ed a causa dello stato di guerra esistente fra Italia e Germania dall’8 settembre 1943.

E siccome il concetto di «non estraneità» abbraccia un’area più ampia del concetto di «attinenza», nel senso che il primo, a differenza di quest’ultimo, richiede l’esistenza di un nesso causale meno immediato, sicché non occorre che l’azione delittuosa sia stata posta in essere proprio per ragioni di guerra, ma è sufficiente che essa sia comunque riconducibile alla guerra, anche questo Collegio ritiene che, applicate le suddette considerazioni al processo contro il SEIFERT, non possa revocarsi in dubbio la sussistenza del requisito della non estraneità dei fatti contestati al conflitto in corso al momento del loro accadimento.

Nessuna valenza può poi essere attribuita alla circostanza sottolineata dalla difesa che il SEIFERT apparteneva alle S.D., atteso che è noto che la Sicherheitsdienst (di cui S.D. è appunto la sigla) non era che una branca (l’apparato di sicurezza) delle S.S., della cui militarità poi non può più nutrirsi alcun dubbio dopo l’intervento chiarificatore del Supremo consesso togato (Cass. 10.2.1997, Priebke), stante la notoria operatività degli appartenenti al corpo delle S.S. su tutti i fronti di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale, la loro organizzazione secondo gli schemi delle vere e proprie formazioni militari ed infine la loro sottoposizione, ai fini militari, al comando tattico dell’esercito.

Osserva ancora la Corte come non possa poi dubitarsi del fatto che l’imputato appartenesse alle S.S. in quanto le assai poco convincenti dichiarazioni al riguardo del Titho oggi prodotte dalla difesa, stante il loro evidente carattere difensivo, risultano smentite dalla messe di documenti trasmessi dall’autorità giudiziaria tedesca, la cui genuinità ed autenticità nessuno ha mai contestato, e da precise deposizioni testimoniali.

Del resto in atti vi è pure la prova fotografica: sul lato destro del bavero della giacca dell’uniforme indossata dal SEIFERT compare infatti la «doppia runa della vittoria», segno inequivocabile dell’appartenenza alle S.S.

Ancora, vi sono sul punto convergenti testimonianze che rappresentano un univoco e positivo riscontro alla tesi della sicura appartenenza dell’imputato alle Schutz-Staffeln.

Infatti, l’ing. D’ANTONI ha dichiarato che tra il personale di vigilanza c’erano due ucraini molto giovani e con le divise delle S.S., ed il MAIR che Otto e Misha (nomignolo, quest’ultimo, col quale l’imputato era al tempo conosciuto dai prigionieri) erano due militi delle S.S., con tanto di divisa e mostrine (v. anche dich. teste VECCHIA e quelle rese in incidente probatorio da PASSERA e BRUNNER).

Del pari nessuna rilevanza può essere attribuita al fatto che il SEIFERT si trovasse detenuto nel lager di Bolzano in quanto condannato per reato comune (violenza carnale commessa all’esterno del campo), dal momento che non risulta affatto plausibile che per tale motivo egli avesse perduto la qualità di militare.

Innanzitutto l’essere detenuto non comporta di per sé la perdita della qualità militare (v. art. 5 c.p.m.p.), ed in secondo luogo egli ha sempre indossato l’uniforme con i segni distintivi del corpo, chiaro segno, questo, di appartenenza alla milizia.

Del resto, l’incarto processuale non evidenzia alcun concreto elemento che possa suffragare i dubbi prospettati al riguardo dal difensore.

5 – Così ribadita la piena giurisdizione della Giustizia Militare a giudicare il SEIFERT in ordine alla fattispecie esattamente individuata dalla Pubblica accusa nel reato militare p. e p. dall’art. 185 c.p.m.g., osserva la Corte che anche le eccezioni in rito sollevate dalla difesa sono infondate.

Rileva il Collegio, infatti, che il principale significato della parola inglese «private», desumibile da un qualsiasi dizionario, è appunto quella di privato per cui la dicitura nell’avviso di cui all’art. 169 c.p.p. di «private enemies» per una persona in buona fede non poteva certo ingenerare alcun dubbio interpretativo. Premesso allora che per il suddetto avviso, non è affatto imposta una dettagliata indicazione dell’imputazione, bensì unicamente «il titolo del reato e la data e il luogo in cui è stato commesso» (comma 1), il dubbio di cui sopra risulta peraltro esplicitamente fugato dalla notificazione all’imputato della notizia di procedimento in data 28 settembre 2000 inviatagli dal P.M., nell’ambito del procedimento relativo all’estradizione, nella quale, oltre a rinvenirsi la precisa ed analitica contestazione di ogni singolo addebito, viene inoltre specificato trattarsi di «civilian enemies» (v. documentazione prodotta dalla Pubblica Accusa all’udienza del 20 novembre 2000).

Ancora, nessuna norma impone la traduzione degli atti nell’ipotesi in cui l’imputato non abbia esercitato il diritto previsto dall’art. 169 c.p.p. e, di conseguenza, le notificazioni siano state effettuate mediante consegna al difensore, in quanto né la Convenzione europea sui diritti dell’uomo né il codice di rito impongono la traduzione nella lingua dell’imputato straniero degli atti che gli vengono notificati, con l’unica eccezione, peraltro perfettamente osservata nel caso di specie, costituita dall’art. 169 co.3 c.p.p.. Pertanto, siffatta esplicita previsione conferma la regola generale, che è quella dell’uso della lingua italiana senza necessità di traduzioni per lo straniero, salvo il diritto dell’imputato che non conosca la lingua italiana di richiedere l’assistenza di un interprete al fine di seguire il compimento degli atti cui partecipa.

Osserva ancora la Corte che non è prevista poi, a differenza di quanto stabilito dall’art. 160 c.p.p. nel caso di imputato irreperibile, la rinnovazione dell’avviso ex art. 169 c.p.p. a conclusione di ogni singola fase processuale. Del resto anche il Giudice di legittimità ha avuto modo di statuire, pur sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito, che qualora la dimora all’estero dell’imputato sia conosciuta e questi abbia disatteso l’invito a dichiarare o eleggere domicilio, le notifiche del decreto di citazione a giudizio e dell’estratto della sentenza contumaciale non devono essere precedute da un nuovo invito ad eleggere domicilio nel territorio dello Stato (Cass. 25.6.1980, Sufi).

Con riferimento, invece, alla sollevata questione di legittimità costituzionale, rileva questo Collegio che le risultanze delle certificazioni anagrafiche comprovano senza ombra di dubbio che l’imputato risiede in un paese di lingua inglese, il Canada, da oltre quarant’ anni e che in detta nazione ha istituito la sede esclusiva dei propri interessi ed affari.

Tali elementi costituiscono all’evidenza valide ed insuperabili ragioni per ritenere che l’imputato conosce la lingua inglese e di conseguenza vengono a sussistere nel caso di specie tutti quegli elementi che a giudizio della difesa condizionano la legittimità costituzionale dell’art. 63 disp. att. c.p.p.

Del resto, vi è nell’incarto processuale prova certa della conoscenza da parte del SEIFERT della lingua inglese: la relazione della notificazione, effettuata il 25 ottobre 2000 dalla polizia canadese, della notizia di procedimento cui si è già fatto cenno. Infatti nel preciso e dettagliato verbale redatto in inglese, al punto 4) è esplicitamente affermato che «L’Ag. RASMUSSEN ritiene che Michael SEIFERT abbia compreso appieno tutto quanto illustratogli. Non sussistono difficoltà linguistiche».

Su tali premesse, pertanto, la dedotta questione si presenta del tutto irrilevante, posto che l’A.G.M. ha interpretato ed applicato detta norma esattamente nel modo auspicato dallo stesso difensore e quindi accreditando, tra le possibili interpretazioni, quella maggiormente aderente al sistema ed alla carta costituzionale.

6 – Anche la richiesta applicazione del provvedimento di clemenza largito con D.P.R. 332/66 appare infondata e conseguentemente non può essere accolta.

L’art. 1 del suddetto decreto prevede infatti la concessione dell’amnistia per i «reati per i quali la legge commina una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni»: la generica indicazione di «legge» consente quindi di annoverare tra tali reati sia quelli comuni che quelli militari, entrambi previsti, appunto dalla «legge».

Il successivo articolo 2 prevede la concessione dell’amnistia per «speciali reati» (diversi da quelli militari disciplinati dall’art.4) tra i quali, lett. b), quelli «commessi dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946 anche da altri cittadini che si siano opposti al movimento di liberazione» qualora determinati da movente o fine politico o connessi con essi ai sensi dell’art. 45 n.2 c.p.p. 1930; la precisa locuzione «altri cittadini» -a fronte dell’altrettanto precisa locuzione della precedente lett. a «chiunque abbia cooperato con esso»- appare significativa nell’indicare due categorie, appunto, di cittadini: quelli «appartenenti al movimento della Resistenza» (lett. a), e quelli «che si siano opposti al movimento di liberazione» (lett. b), a parità di movente, fine o connessione, laddove, invece, per la semplice cooperazione non appare richiesta alcuna cittadinanza («chiunque»).

Il successivo art. 4 prevede l’esclusione oggettiva per i soli reati militari previsti dal libro II, titolo I e titolo II capo IV del c.p.m.g. e dal libro III titolo II e dall’art. 115 c.p.m.g.; non essendo quindi compreso in tale esclusione il libro III titolo IV del c.p.m.g., appare evidente che i relativi reati rientrano nella norma generale di cui al citato art.1, con gli stessi parametri.

Il successivo art. 5 prevede, in relazione al computo della pena per l’applicazione dell’amnistia, che «si tiene conto dell’aumento di pena dipendente dalle circostanze aggravanti» (lett. c).

Ciò premesso, il SEIFERT è stato condannato alla pena dell’ergastolo per il reato militare di «concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani» (artt. 13 e 185 co. I e II c.p.m.g. in relazione agli artt. 81, 110, 575 e 577 nn. 3 e 4, 61 n.4 c.p.), dunque per un reato militare che, appunto, tale pena perpetua prevede e che, pertanto, non rientra nell’ambito dell’art. 1 del decreto di amnistia in questione. Il reato commesso, sicuramente militare e come tale disciplinato solo dall’art.4 (ed indirettamente dall’art. 1) e non quindi anche dall’art.2, non rientra comunque in «quelli speciali» commessi da altri cittadini che si siano opposti al movimento di liberazione con fini politici o in rapporto di connessione con essi. A riprova, la semplice indicazione da parte del legislatore dell’art. 45 n.2 c.p.p. 1930, con il significativo silenzio in relazione all’art. 264 c.p.m.p. che tale rapporto di connessione espressamente disciplinava.

Senza contare, poi, ad ulteriore riprova, che al COLOGNA, al MITTERSTEIELER ed al KOPPELSTATTER (in ordine ai quali il difensore fa rilevare la connessione ai sensi dell’art. 45 n.2 c.p.p.1930) era contestato il reato di cui all’art.5 D.L.L. 159/1944, in relazione all’art. 51 c.p.m.g. per il primo, ed all’art. 58 c.p.m.g. per gli altri due (esplicitamente richiamati nelle tre sentenze che li riguardano), che rientrano nel libro III titolo II del codice penale militare di guerra e, come tali, oggettivamente esclusi dall’ambito di applicabilità del provvedimento di clemenza in questione.

7 – Anche la richiesta concessione delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. non merita accoglimento.

Infatti, la Corte condivide totalmente e fa proprie le argomentazioni al riguardo del Giudice di prime cure, che ha escluso il concorso delle suddette attenuanti in considerazione del peso marginale e trascurabile degli elementi, nuovamente reiterati dal difensore appellante, del tempo trascorso dal fatto senza la commissione di ulteriori reati e dell’età avanzata dell’imputato, subvalenti se collocati a contrasto con i connotati oggettivi di inaudita gravità e di manifesta disumanità dei barbari omicidi di cui si è reso protagonista; indici di profonda ed ineguagliabile malvagità, anche sotto il profilo della capacità a delinquere e delle tendenza criminosa manifestata.

Indicativo, a quest’ultimo riguardo, risulta ancora il fatto che il giudicabile in precedenza, fuori dal lager, si fosse già reso autore di un odioso episodio di violenza carnale ai danni di una donna di Bolzano.

Questo Collegio non può poi non sottolineare che a tutt’oggi il SEIFERT non ha manifestato il benché minimo segno di pentimento, né ha sentito il dovere (quanto meno morale) di giustificare la condotta contestatagli.

Ancora, l’accento posto dall’appellante sul particolare contesto storico-politico nel quale i fatti erano stati commessi, e sulla circostanza che l’imputato doveva ritenersi un mero esecutore di ordini da altri provenienti, appare assolutamente ininfluente ai fini che ci occupano, atteso che, secondo la Corte, le modalità degli omicidi perpetrati dal SEIFERT dimostrano una malvagità ed un disprezzo per i più elementari valori della civiltà moderna, che vanno ben oltre il comprensibile scompenso emotivo dovuto al periodo bellico, o lo zelo disciplinare.

Infatti, se l’esperienza ci mostra che vi sono valori positivi che possono rivelarsi anche in un comportamento che appare in primo luogo come distruttore di valori, essa ci permette peraltro di constatare nel contempo che questi valori positivi possono comunque trasparire da uno stato d’animo o da una situazione che nella normalità o nella maggior parte dei casi viene percepita con un opposto significato negativo: si pensi al valore che può assumere la condotta di un soggetto che delinque per gelosia o per povertà.

Peraltro esistono dei (dis)valori che nessuna situazione concreta può presentare alla coscienza emozionale con un significato positivo, e fra questi vi è senz’altro il disprezzo per la vita umana di cui tutta la condotta dell’imputato appare permeata.

Per questo non è dato percepire nell’azione criminosa del SEIFERT alcun aspetto che meriti benevole considerazione: in quanto essa appare alla stregua di un comportamento perfettamente coerente con una personalità del tutto negativa che disconosce il più elementare valore della civile convivenza: il rispetto per gli altri.

E’ quindi profondo convincimento del Collegio che nella concretezza della complessiva azione del giudicabile non sia possibile rilevare alcun segno di una minore riprovevolezza.

Nessun pregio ha infine il proposto argomento comparativo afferente i processi COLOGNA e GUTWENIGER.

Questa Corte non si sente affatto vincolata (non solo giuridicamente, essendo questo un dato certo, ma anche moralmente) al giudizio espresso dalla Sezione Speciale di Corte d’Assise di Bolzano nel 1946, allorché concesse a questi ultimi imputati le attenuanti generiche per fatti sostanzialmente analoghi, almeno per il COLOGNA, con quelli oggetto del presente processo.

Infatti, non emergono elementi, di nessuna natura, che, secondo il Collegio, riescano a sminuire, anche solo di poco, il disvalore giuridico, morale ed umano dell’inaccettabile, inqualificabile ed ingiustificabile comportamento del SEIFERT, tenuto oltretutto nei confronti di soggetti assolutamente indifesi ed in condizione di cattività.

Non evidenziandosi pertanto ragioni convincenti per l’irrogazione di un più mite trattamento sanzionatorio deve confermarsi, anche in questo grado di giudizio, il diniego alla concessione delle richieste attenuanti generiche.

L’integrale conferma dell’impugnata sentenza comporta inoltre per il SEIFERT, imputato appellante, la condanna al pagamento delle ulteriori spese di giustizia nonché di quelle relative all’esercizio dell’azione civile in questo grado, nella sottoindicata misura (basata sulle parcelle prodotte dai difensori):

  • Comune di Bolzano, lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • A.N.E.D.- A.N.P.I., lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • Comunità Ebraica di Merano, lire 5.000.000 (cinquemilioni).

P.Q.M.

la Corte, visti gli artt. 592, 603 e 605 c.p.p., 261 c.p.m.p.;

CONFERMA

la sentenza emessa dal Tribunale militare di Verona il 24 novembre 2000 nei confronti di SEIFERT Michael, contumace;

DICHIARA

irrilevante la dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 63 disp. att. c.p.p.;

CONDANNA

altresì l’imputato al pagamento delle ulteriori spese di giudizio ed al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili nella sottoindicata misura:

  • Comune di Bolzano, lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • A.N.E.D. e A.N.P.I., lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, lire 12.000.000 (dodicimilioni);
  • Comunità Ebraica di Merano, lire 5.000.000 (cinquemilioni).

Deposito entro quarantacinque giorni.

Verona, 18 ottobre 2001

IL CONSIGLIERE ESTENSORE
Franco Antonelli

IL PRESIDENTE
Vito Nicolò Diana