Mari Pagani ha letto l’intervento di Milena Bracesco, vicepresidente della sezione ANED Sesto San Giovanni – Monza. Milena Bracesco, assente per una indisposizione, è figlia di Enrico, un partigiano deportato a Mauthausen ucciso con il gas nel Castello di Hartheim.

La prima volta che andai nei lager fu nell’estate del 1976 con mio marito che in quel periodo lavorava alla Siemens di Monaco. Era una domenica e decidemmo di visitare con i nostri figli : Elena di 5 anni e Andrea di 9 il lager di Mauthausen.
Mamma già da diversi anni forse dalla fine degli anni ’50 che con i compagni della storica sezione ANED di Sesto Monza ogni anno a maggio con ex deportati , vedove e famigliari percorrevano in primavera quelle strade, quei pellegrinaggi in un clima non certo accogliente o rispettoso come accade oggi. Ritiravano al bar di Langhestein la chiave per poter accedere al campo di Gusen sotto sguardi non sempre amichevoli che dalle villette adiacenti li seguivano.
Con i compagni ripulivano dalle erbacce lo spazio attorno al forno crematorio, depositavano fiori e incollavano foto dei loro padri, dei loro fratelli, dei loro mariti negli spazi vuoti , ovunque ritenevano che i loro cari potevano esserci stati.
Ancora non si conoscevano molte cose, molte, storie,tanti destini, che poi negli anni a venire si sono gradualmente scoperti e ancora ce ne saranno da scoprire per il futuro.
Quella domenica di agosto con la mia famigliola varcato l’imponente ingresso del lager di Mauthausen subito mi prese una folata di emozioni fortissime, incredulità e dolore mi accompagnarono per tutto il percorso. I racconti di mamma lì avevano una concretezza quasi insopportabile. La manina di Elena si era infilata silenziosamente nella mia mano per non staccarsi più.

Andrea con la sua macchinetta fotografica scattava foto per la sua ricerca: la sua maestra ci teneva, era una donna sensibile e intelligente che saputo da Andrea la storia del nonno lo aveva stimolato affinchè relazionasse i compagni così che mi riempì di domande a cui rispondevo faticosamente, certo avrei preferito percorrere quei luoghi in silenzio.
Da lì posso dire di non essermi più staccata né dalla vita di ANED né dal senso del dovere di iniziare piano piano a trasmettere Memoria, parlandone con amici in ogni occasione che mi si presentava, semplicemente non omettendo nulla delle mie radici.
Fin da giovanetta un desiderio fortissimo di conoscere la storia di mio padre e di capirne il perchè di quelle scelte si fece sempre più forte e sempre più forte cresceva in me l’orgoglio di aver avuto un padre antifascista che ha lottato generosamente per la libertà.
Senza falsi pudori, senza reticenze, è trascorsa la mia vita e chi diventa mio amico mi accetta così come sono, con il mio bagaglio di sofferenza, con i miei difetti, i miei limiti ma anche con la mia positività e la gioia di vivere che mi ha sempre contraddistinto.
Fin dal 1965 per il mio matrimonio cercai un sacerdote non comune per celebrarlo e lo trovai, era espatriato in Francia nel dopoguerra ed era parroco di una comunità di minatori italiani. Un sacerdote partigiano e per questo finto in carcere con papà a San Vittore e che con papà condivise il viaggio dal binario 21 della stazione di Milano verso il campo di Fossoli. Furono nella stessa baracca 19 e partirono sullo stesso vagone per Mauthausen da Bolzano, ma poi lui don Camillo Valota fu trasferito come molti sacerdoti a Dachau ma sopravvisse. A papà toccò un destino ben più crudele non fece più ritorno.
Non è da molto che ho saputo che don Camillo Valota ispirò lo scrittore Giovanni Guareschi per il suo personaggio di successo: “ Don Camillo e Peppone” una serie di romanzi che raggiunsero una enorme popolarità anche grazie alla edizione cinematrigrafica degli anni ’60.

La Memoria non va in pensione, la memoria di cosa è stata una dittatura fascista e di quanto dolore ha prodotto non può e non deve scivolare nell’indifferenza e nell’ignoranza che aimè pare caratterizzi i nostri giorni. Le nuove generazioni hanno il diritto di conoscere. Noi di ANED abbiamo il dovere morale di divulgare e trasmettere ciò che è chiaramente ben espresso nell’articolo 3 del nostro statuto:
“di perseguire esclusivamente finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via principale, di attività di interesse generale in modo particolare di valorizzare, in campo nazionale e internazionale, il grande contributo delle Deportate e dei Deportati alla causa della Resistenza e dell’antifascismo riaffermando gli ideali perenni di libertà, di giustizia e di pace, affinchè divengano elementi fondamentali nella formazione democratica delle nuove generazioni.”
Questo è lo spirito che mi ha accompagnato nella realizzazione del “Bosco della Memoria” dedicato ai 92 Deportati della mia città di Monza.
Ebbene questi sono gli scopi che molti di noi si prefiggono andando nelle scuole, organizzando mostre, incontri, spettacoli teatrali con e per i giovani ma non solo. Coinvolgere le istituzioni, parlare con tutti senza preclusioni, anche con chi sembrerebbe contro di noi, poco sensibile ai nostri valori a maggior ragione lo si deve fare. Certo è sempre poco quello che si fa rapportato alle necessità di conoscenza ma, se riusciremo a passare il testimone come lo hanno fatto i nostri genitori, i nostri Deportati con noi forse, qualcosa migliorerà, siamo aperti alle nuove idee, alle nuove generazioni, deve crescere la consapevolezza di ciò che è stato , abbattere l’ ignoranza. Difficile è trovare la chiave di lettura giusta per calamitare gli interessi di tutti, noi ci proviamo con più linguaggi e non si demorde. Incontrare tanti giovani nelle scuole è stimolante, è una occasione di crescita anche per chi ormai è vecchietta come me.

La storia partigiana di combattente antifascista di mio padre ha dato un senso alla mia vecchiaia. Grazie papà, grazie a tutti voi che come me vivono e operano nella convinzione e nella speranza di essere ancora utili a questa democrazia che tanto è costata in termini di vite e di innumerevoli sacrifici.
La nostra è una cultura di pace.

Milena Bracesco

Sesto San Giovanni – Monza

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