Una lettera a “Triangolo Rosso”

D’accordo trasferire in un film l’orrore dei campi di sterminio è difficile, ma qualche volta la fantasia è davvero eccessiva.
 
 

Sono stato recentemente al cinema Eliseo con un gruppo di studenti del liceo linguistico di Bresso per assistere alla proiezione delfilm: “Jona che visse nella balena”. Questi ragazzi erano già stati contattati da me durante uno dei tanti incontri di quest’anno. Il parere del pubblico su questo film è positivo, ma, personalmente, devo esporre una critica severa che come ex deportato sento il dovere di fare.

La località del campo non appare e questo non ha molta importanza, indubbiamente il regista Faenza ha collocato il suo obbiettivo all’interno di un lager qualsiasi. Non so se al film hanno collaborato ex deportati come consulenti, credo di no, altrimenti non sarebbero passate alcune cose che potrebbero dare esca ulteriore ai già troppi revisionisti storici circolanti.

Nel film si vede un “Revier” con lettini smaltati e senza pazienti e, oltretutto, gestito da un medico delle SS: cosa assurda. Il medico stesso si lascia corrompere per una scatola di sigari conservata da una prigioniera, e c’è da chiedersi coma abbia fatto la stessa a tenerli con sé dopo le visite sistematiche e conseguenti spoliazioni. Ma il bello viene dopo: con questi sigari il medico ha modo di fare incontrare la prigioniera con il marito che lavorava alla cav,. incontro che avviene all’interno del “Revier” e si conclude con un… amplesso. Ora, che in simili situazioni e nelle condizioni fisiche e psicologiche che sappiamo si possa immaginare una cosa del genere è semplicemente assurdo. Che il “Revier” non fosse una ammucchiata di scheletri viventi, assurdo. Che un medico delle SS si sporcasse le mani con degli esseri ritenuti inferiori, idem. Per non parlare della sentinella SS sulla porta stessa dell’infermeria con elmo e mitraglietta in mano a difendere cosa? E le sarabande dei bambini? Forse a Terezin…

Tralascio gli altri particolari di minor rilevanza che sono stati rilevati anche dagli studenti presenti che, avendo assistito ad incontri precedenti con il sottoscritto immaginavano il campo solo come un inferno senza possibilità di scampo a tutti gli effetti.

L’Aned non potrebbe pensare alla realizzazione di un vero documentario, sia pur romanzato, ma controllato dall’occhio di testimoni del dramma della deportazione? Con cordialità.

Roberto Camerani (Milano)