Roni, giovane vetraio ventisettenne, sta tagliando con cura una lastra di vetro. Ma la sua testa è altrove: accanto a lui, appesa al muro del laboratorio, una radiolina trasmette in diretta il processo Demjanjuk. “Non riesco a credere, non riesco a concepire il fatto che degli uomini, i tedeschi del lager, abbiano potuto commettere simili atrocità. E ancor meno riesco a capire come un uomo abbia potuto sopravvivere a questo inferno” dice il giovane vetraio. Alla radio ha appena ascoltato la deposizione di Yehiel Raijman, venuto apposta dall’Uruguay per testimoniare al processo come le Ss di Treblinka, per divertirsi, chiudessero talvolta le loro vittime ebree nelle “docce” senza introdurvi il gas mortale. “Per divertirsi”, ripete Roni. Gli ebrei ammassati, stretti gli uni contro gli altri in quello spazio minimo, consumavano poco a poco l’ossigeno -perché le “docce” erano a chiusura stagna e impermeabile – e finivano per soffocare lentamente, negli spasimi, con convulsioni atroci. Di norma i gas di scarico di un motore diesel di carro armato, quello che veniva usato abitualmente per uccidere le vittime, compivano il loro lavoro in 15,20 minuti. Ma nell’altro caso l’agonia poteva durare dalle 40 alle 45 ore.
Quando le porte delle “docce” venivano finalmente aperte, dopo quarant’otto ore, i corpi formavano una massa scura, collosa. “Per divertirsi”, ripete acora Roni. Raijman conclude la sua testimonianza: “La morte non veniva sempre facilmente a Treblinka”.
Nel suo controinterrogatorio l’avvocato difensore O’Connor bombarda il testimone di domande. Quali erano i nomi delle Ss tedesche? E quelli degli ucraini? Di che colore erano le loro uniformi? Avevano un teschio sul berretto? Dove tenevano le armi? Come venivano trasportate le valige contenenti denti d’oro strappati alle vittime? E così via. Qualche volta Raijman risponde con precisione e molti dettagli. Più spesso la sua risposta è: “Non mi ricordo”. E’ chiaro che l’obiettivo della difesa è quello di mostrare che il testimone è poco attendibile. Se non ricorda tutti questi particolari, se non ricorda i nomi, il colore delle uniformi, allora com’è possibile credergli quando dice che “Ivan il Terribile” era giovane, aveva circa 25 anni, grosso, forte come un cavallo, i capelli tagliati corti, a spazzola, le orecchie a sventola.
Sempre calmo e sereno per tutta la durata del controinterrogatorio, il presidente del tribunale interviene ogni tanto per precisare un punto importante che è stato mal tradotto dall’yiddish, la lingua usata da Raijman. Tutto il processo si svolge in ebraico, ma gli avvocati della difesa, Mark O’Connor e John Gill, si esprimono in inglese e beneficiano per questo di una traduzione simultanea dall’ebraico in inglese. L’imputato dispone dal canto suo di un traduttore che gli siede accanto e gli traduce in ucraino ogni parola.
Infine molti testimoni che parlano soltanto yiddish si esprimono in questa lingua, e ogni loro frase viene subito tradotta in ebraico. Una vera e propria torre di Babele, ma di un tipo molto particolare: tutti gli interessati hanno la possibilità di capire nella loro lingua materna tutto ciò che viene detto. Il testimone racconta come ha riconosciuto Ivan Demjanjuk in diverse foto che gli vennero mostrate da funzionari della giustizia americana a New York. Identifica una foto che gli viene porta adesso dal pubblico ministero israeliano: si, è la stessa che vide a New York, si, John Demjanjuk è Ivan il Terribile.
Mark O’Connor protesta contro questo metodo e chiede al tribunale perché non sono state fatte sfilare di fronte al teste diverse persone, come si fa di solito nelle inchieste di polizia, per vedere se egli sarebbe stato capace di idividuare nel gruppo il vero Demjanjuk. “Invece così non si è fatto, né a New York né a Gerusalemme”, argomenta l’avvocato difensore contestando la validità di un’identificazione compiuta esclusivamente sulla base di fotorafie.
Questa volta Dov Levine, il presidente del tribunale, si arrabbia: “Saremo molto prudenti. Quando il funzionario della giustizia americana verrà qui a deporre su questa vicenda, lo interrogheremo sul metodo utilizzato per l’identi-
ficazione. Soltanto allora decideremo se accettare la fotografia come prova valida o se respingerla e invalidarla”.
Ma non vogliamo più ascoltare ulteriori discussioni in proposito”, conclude il giudice Levine. Questo contro Demjanjuk doveva essere il processo contro un presunto collaboratore nazista nel campo di sterminio di Treblinka durante la seconda guerra mondiale; si è invece trasformato nella testimonianza viva di tutto l’olocausto ebraico. Josef Charney, un altro supertite degli 870 mila ebrei gassati a Treblinka tra il 1942 ed il 1943 presentato dall’accusa, ha ribadito anche lui di aver identificato John Demjanjuk l’aguzzino ucraino. A differenza dei precedenti testimoni apparsi durante queste prime settimane del processo, la deposizione di Charney si è rivelata particolarmente sofferta. Non la disperazione trattenuta a stento dalla volontà decisa di raccontare ogni dettaglio di Pinchas Epstein e neppure la rabbia infinita di Eliyahu Rosenberg il quale aveva gridato “nazista assassino!” all’imputato, quando questi aveva cercato di porgergli la mano nel momento del riconoscimento. Ma un pianto fatto di singulti violenti, neppure accompagnato dal bisogno di coprirsi il viso.
Josef Charney ha ricordato quando “Ivan il terribile” aveva obbligato un suo compagno ad avere rapporti sessuali con il cadavere sfigurato di una donna appena estratta dalla camera a gas. E la sua voce si è fatta acuta, soffocata dalla memoria del grande dobermann nero di un ufficiale delle SS, addestrato a strappare i genitali degli ebrei che, nudi, si avviavano alle “docce della morte”. Per tutti i testimoni valgono dunque le parole urlate da Pinchas Epstein contro Demjanjuk sin dai primi giorni del processo e continuamente riprese dalla stampa israeliana: “Questo è Ivan il terribile. Lo sogno ogni notte. Lo vedo. Lo vedo. Lo vedo. Quando ci veniva ordinato di rimuovere i corpi, Ivan usciva dalla stanza dove aveva appena fatto funzionare i motori delle camere a gas e ci batteva senza sosta con una sbarra, un coltello o una baionetta. Poteva spezzare la testa con un colpo solo, o tagliare le orecchie, il naso. Commetteva sui corpi dei vivi e dei morti le più incredibili atrocità. Nessuna mente umana può lontanamente concepire cosa era capace di fare quest’uomo!”.
Israele è rimasta sferzata da queste frasi, come se il ricordo assopito del passato avesse avuto bisogno di tutta la loro violenza per abbandonare l’indifferenza iniziale. L’aula del processo ha visto così’ crescere giorno dopo giorno l’affluenza del pubblico. Anziani sopravvissuti all’olocausto, militari, persone di ogni età e classe sociale attendono in fila ogni mattina sin dalle 7 nella speranza di trovare un posto in sala. Ma soprattutto sono i giovani e i giovanissimi ad essere i più numerosi.
Il ministero dell’Educazione di Gerusalemme è addirittura giunto ad ordinare che siano trasmesse nelle scuole le fasi cruciali delle singole udienze. Dopo la radio anche la televisione riprende in diretta il processo dalle 8,30 alle 13 di mattina e dalle 16 alle 19 per quattro giorni la settimana. Anche il mondo politico non è rimasto apatico. I primi giorni infatti soltanto singoli parlamentari si erano visti nell’aula, perlopiù essi stessi sopravvissuti all’olocausto o figli di scampati.
“Quanto entro in questa sala è come se tutto ciò che accade fuori perda qualsiasi significato”, ci aveva detto il deputato laburista di origine polacca Shevah Weiss, in un momento di pausa.
Ma adesso tutti i principali leader politici del Paese hanno già passato qualche ora all’udienza. Il primo ministro Ytzhak Shamir ha assistito ad una delle fasi più drammatiche. E’stato quando “Ivan” Demjanjuk ha perduto per un attimo la sua calma ormai proverbiale. Il suo avvocato Mark O’Connor ha chiesto a Eliyahu Rosenberg perché mai non avesse reagito nel vedere tante atrocità. “Chiedete a lui cosa mi avrebbe fatto”, ha gridato in risposta Rosenberg rivolgendosi all’imputato. Questi ha tremato un attimo, poi, col volto imperlato di sudore, si è alzato in piedi e ha replicato nell’ebraico stentato imparato durante i dodici mesi di prigionia in Israele: “Ata shakran”, “Sei un bugiardo”.