Una affettuosa testimonianza di Giovanni Melodia. Dalla ” resistenza culturale e morale al fascismo” al generoso impegno di solidarietà tra i deportati nel primo Lager di Hitler fino alla odierna attività tra centinaia di giovani di un centro sociale.
Padre Carlo Manziana ha compiuto 91 anni

Don Carlo Manziana, il “nostro” don Carlo Manziana, caro non soltanto a noi di Dachau ma a tutti gli ex deportati, ha compiuto 91 anni! Era stato arrestato a Brescia, sua città natale, il 4 gennaio ’44, in quanto il suo Oratorio dei Filippini per la Pace era considerato, dai fascisti di Salò e dalla polizia nazista, un “covo” di resistenza e di propaganda contro la guerra. In effetti non poteva essere che così, dal momento che, già da molti anni, come egli stesso ha detto in occasione del Convegno di Torino su Il dovere di testimoniare, “da parte soprattutto del futuro Cardinale, P. Giulio Bevilacqua, si dichiarò la incompatibilità della dottrina fascista e poi nazista con il Cristianesimo”, una “incompatibilità” mai ignorata dai Filippini, nelle cui file aveva militato Padre Bevilacqua, ma non sempre avvertita da altri ambienti cattolici. (Quel Padre Bevilacqua, sia detto per inciso, che tanto aveva influito sulla decisione di Andrea Gaggero di rinunziare ad ogni possibilità di carriera nella gerarchia, per entrare a far parte della democratica Congregazione di S. Filippo Neri, come lo stesso Gaggero ricorda nel libro Vestio da omo, pubblicato nel ’91 dalla c.e. Giunti di Firenze,) Padre Manziana, per coerenza e per convinzione personale “non ebbe mai dubbi sulla doverosità di una resistenza culturale e morale dinanzi al regime”, come egli stesso ha dichiarato. E i fascisti che già una volta, nel 1926, avevano invaso la sede dei Filippini di Brescia, non potevano non saperlo. Egli è quindi, per loro e per i nazisti, un nemico; e, come tale, da togliere dalla circolazione, insieme con alcuni altri sacerdoti e laici, fra i quali l’amico fraterno, avvocato Andrea Trebeschi, che finirà i suoi giorni a Gusen, nel gennaio ’45. Don Manziana, rinchiuso nelle carceri di Brescia e poi nel forte San Leonardo di Verona, vi subisce pesanti interrogatori. Arriverà a Dachau il 29 febbraio, nel pieno di un durissimo inverno; secondo, in ordine di tempo, dei 28 preti italiani che vi verranno rinchiusi. Preceduto cioè soltanto da don Giovanni Fortin, parroco
di Terranegra di Padova, che vi era giunto esattamente un mese prima. (Rispettive matricole 64.718 e 64.762.) E’ esile don Manziana e di non splendente salute, tanto da aver conosciuto due lunghe degenze nei sanatori di Arco di Trento. E tuttavia non sa e non vuole risparmiarsi, divenendo subito popolarissimo nel Lager ed in particolare tra gli italiani, per quanto serenamente, infaticabilmente, cerca di fare. Entra nelle baracche, e anzitutto nella 25 dove sono ammassati più di duemila nostri connazionali, riesce a varcare i cancelli del Revier, il mostruoso stracolmo lazzaretto, per portare conforto e, quando è possibile, un aiuto a tutti i ricoverati, di qualsiasi fede e nazionalità. Non è solo. Con lui, in perfetta simbiosi, alcuni pastori evangelici, sacerdoti ortodossi e preti polacchi, tra i quali ultimi si distingue un altro sacerdote straordinario: don Boleslaw Szkiladz, il cui difficilissimo cognome gli italiani, che lo apprezzano molto, hanno tramutato in “Schilonge”,… C’è una autorevole testimonianza sull’opera del Nostro: è del generale Sante Garibaldi, nipote diretto (figlio di Ricciotti) dell’Eroe dei due mondi, che in una lettera ad un amico, scritta poco dopo la liberazione, cita coloro che lo hanno aiutato a sopravvivere a Dachau. Fra essi un solo nome è italiano: quello di don Carlo Manziana. Il giorno stesso della liberazione (pomeriggio del 29 aprile ’45) don Manziana entra a far parte del Comitato italiano, del quale accetta la vice presidenza, riversando in quell’improvviso organico tutta la sua carica di umanità, di generosità, di benefico attivismo, in particolare a favore dei moltissimi italiani ricoverati nelle infermerie, avvicinandoli a uno a uno ogni giorno e alcuni dei quali, tra cui il nostro Gigi Mazzullo, devono la vita ai suoi tempestivi, provvidenziali interventi. Se il Comitato italiano riuscì, nonostante le mille e mille difficoltà, ad operare efficacemente a favore dei nostri connazionali, lo deve in gran parte alla serena, instancabile opera di don Manziana. Significativo in proposito quanto ebbe a scrivermi a Milano nel dicembre 1945, poco dopo il suo ritorno a Brescia. Tenso con un senso di nostalgia al lavoro compiuto in fraternità d’animi lassù, tra i nostri poveri compagni e vorrei che anche qui si potesse lavorare per il vero bene del popolo, con la stessa cordialità e lealtà”. Vescovo emerito di Crema, e cioè in pensione “per limiti di età”, il Nostro potrebbe cercare di riposarsi; invece continua ad operare “per il vero bene del popolo”, in mezzo a centinaia di giovani, ospiti della Fondazione Bevilacqua-Marcolin di Brescia, un Centro Sociale che, come mi ha scritto lui stesso, “accoglie operai, impiegati e studenti universitari non soltanto italiani ma anche dell’Asia e dell’Africa”, con moltissimi problemi. Che certamente non spaventano, non possono spaventare il nostro Amico, nonostante i suoi felicemente compiuti 91 anni. Proprio in questi giorni, dopo tante e tante altre missive scambiateci durante questi quasi cinque decenni, mi è giunta una sua cartolina con un “memore saluto”; e io fortissimamente mi auguro – e con me certamente, tanti, tantissimi altri – che sue lettere, suoi biglietti, sue cartoline, la sua Parola insomma, e il suo concreto esempio, ci raggiungano e stimolino per moltissimi anni ancora.

Giovanni Me