Il discorso di Gianfranco Maris al monumento italiano

Ieri, durante le celebrazioni della liberazione, che si tenevano davanti al crematorio del campo di Gusen, ricordavo che, in quel luogo, esattamente il 21 aprile 1945, dopo una ennesima selezione, venivano gasati 800 deportati. Negli stessi giorni in cui in Italia già sventolavano le bandiere della libertà. In quei giorni, per alcuni popoli, la libertà era già stata riconquistata ma coesisteva con la persistenza, per altri uomini ancora oppressi, del delitto, delle selezioni, delle camere a gas. Ma in quei giorni tutti sapevano che la gioia, già presente in Italia, si sarebbe presto diffusa anche nelle terre non ancora liberate; tutti sapevano che la libertà e la democrazia sono beni indivisibili a cui ogni popolo deve partecipare. Basta che un solo popolo sia privato della sua libertà perche una minaccia incomba su tutti gli altri. Quando, nel 1935, una imbelle democrazia europea tollerò che il partito nazional socialista invadesse la Cecoslovacchia e, nel 1936, tollerò che si annettese l’Austria, quella democrazia europea accettò che fossero poste le premesse della violenza che di lì a poco sarebbe dilagata in tutta Europa. La libertà e la pace sono beni indivisibili, comuni a tutti i popoli, nella difesa dei quali tutti gli uomini debbono essere legati. Noi deportati eravamo uniti: di nazionalità diversa, di religione diversa, di pensiero politico diverso, eravamo uniti nella difesa di questi comuni e indivisibili beni. E qui, anche qui, eravamo tutti uniti, al di là delle nazionalità: il croato con lo sloveno, il serbo con il bosniaco ed il russo con l’ucraino ed il giorgiano con il ceceno. In questi giorni, dedicati anche al ricordo della solidarietà che ci legava nella deportazione, mi son chiesto che cosa possono provare, che cosa possono pensare i compagni sloveni, i compagni croati, i compagni serbi, i compagni bosniaci, rivisitando quel loro comune passato di lotta, di dolore, di morte, quando combattevano fianco a fianco l’uno dell’altro, non solo per la libertà della loro casa, del loro villaggio, del loro paese, ma anche per la libertà di tutte le case, di tutti loro, di tutti i loro villaggi, di tutti i loro paesi. Ritorna lo spettro di un nazionalismo remoto, che si pensava sepolto; un nazionalismo degli interessi, evocato ancora per dividere e per uccidere. Quelli che insieme hanno combattuto per la libertà sono divisi: i ceceni, ali ucraini, i russi portano forse corone insieme a quell’unica ideale tomba, che dovrebbe, qui, rappresentare i morti, tutti i morti di quello che un tempo fu il loro comune grande paese? In questo momento soffro con i miei compagni croati, bosniaci, serbi, s loveni, ucraini, russi, ceceni; e vorrei che non ci fossero separazioni, ma anche per loro e tra di loro vorrei che ci fosse fraternità e pace. Ma così non è. E non è possibile tollerare che così non sia. Dobbiamo, con infinita tristezza, constatare che finora non siamo stati capaci di impedire che la politica degli interessi prendesse il sopravvento sui valori della Resistenza; che non siamo stati capaci di fare evolvere verso più consolidate mete le ragioni di una convivenza fondata sull’uguaglianza, sulla giustizia, sulla libertà. Il nostro compito non è finito, dunque; va ben oltre la conclusione delle celebrazioni del 50′ anniversario della liberazione. In Germania una parte dei cittadini e le forze politiche di destra ricordano oggi il 7 maggio 1945 solo come il giorno in cui finì la guerra e non lo ricordano anche come quello in cui crollò e fu vinta la dittatura che aveva inondato di crimini l’Europa e la Germania stessa. Anche in Italia si tende a due verità sulla Resistenza: una che la riconosce come il momento fondante dello stato democratico e radice dell’identità nazionale; un’altra che la vuole omologare ad una lontana e superata fase storica: una fase da archiviare, in cui due minoranze si contrapposero, sul piano politico e militare, nella generale indifferenza della maggioranza della popolazione. Non fu così. Io fremo, quando oggi sento alcuni parlare di “Azienda Italia”, ponendo gli interessi economici e non i valori umani e civili a fondamento dello stato democratico. Il nostro impegno non si conclude qui, dunque. Dobbiamo dare un futuro alla nostra memoria, perché dalla conoscenza del passato sgorghi sempre, per ogni donna e per ogni uomo, nel tempo a venire, lo stimolo e la ragione per lottare affinché tutti i popoli, nessuno escluso, si riconoscano nei valori della giustizìa e della libertà e in questi valori vivano tra di loro in pace.