GIANFRANCO MARIS presidente dell’Aned
Cari amici, come presidente dell’Associazione dei familiarì dei caduti e degli ex deportati, dei superstiti nei campi di sterminio, compete a me la relazione introduttiva ai lavori di questo nostro incontro. Autorità civili e religiose, compagne e compagni della Resistenza e della deportazione, grazie di essere qui. Le affinità etiche e politiche e la solidarietà della amministrazione comunale di Prato e delle istituzioni regionali della Toscana hanno consentito all’Aned di eleggere Prato, per la seconda volta, a sede del suo congresso nazionale, IM. Il 19 ottobre del 1990, in occasione del nostro X congresso, sottolineavo come l’Aned giudicasse Prato una sede etica, dove la storia non può essere mistificata, dove vive e fertili sono ancora le radicì del difficile cammino del nostro Paese verso la democrazia e verso la libertà. A queste ragioni della scelta di Prato come sede delle nostre riflessioni aggiungo oggi, sulla base di quella esperienza, che l’Aned giudica Prato anche un laboratorio culturale eccezionale, nel quale il dibattito delle idee trova immediata sperimentazione e riscontro. Lo ha rilevato il ministro della Pubblica Istruzione sottolineando la rilevanza che un nostro dibattite sulla politica della memoria trova poi immediato riscontrc in un incontro con la gioventù delle scuole di Prato e della provincia futura in un dibattito sulla Costituzione e sui sua, valori oggi nel nostro Paese. Questa è la riunione di sabato. Ancora una volta ringrazio quindi Prato e la sua amministrazione e il suo sindaco per la loro ospitalità. Non è mai stato, cari amici, nostro metodo di lavoro aprire i nostri congressi con il puntiglioso censimento degli accadimenti intervenuti nel tempo intermedio tra un congresso e l’altro, come se si trattasse di discutere sullo stato del mondo. Non lo farò quindi neppure oggi, limitandomi alle sintesi indispensabili per affrontare i temi di fondo del congresso. Dire che la nostra riunione cade in un momento difficile è ovvio e persino banale; quando mai i momenti in tutti questi cinquant’anni sono stati facili? Già il 1948 si aprì con difficoltà per la nostra Costituzione, frutto politico e pensiero etico e sociale di una unità resistenziale che già aveva accettato di esistere, quando nasceva la Costituzione, creatura fragile, affidata a forze che già avevano con la rottura dell’unità anti-fascista stretto un patto per escludere dalla gestione del Paese una parte della Resistenza. E chi mai avrebbe potuto nel regime aperto da tale esclusione rendere precetto cogente il programma di rinnovare la società e di rimuovere dalla società ogni disuguaglianza per consentire anche ai lavoratori di partecipare alla direzione politica ed economica del Paese? E poi il 1948, il frazionamento delle forze sindacali e della Resistenza, e in questo quadro l’uníca associazione che mantiene uniti i suoi soci è l’Associazione dei deportati politici nella quale da sempre, vorrei dire da Mauthausen e da Auschwitz, e da Dachau e dagli altri campi, insieme stanno come là insieme stavano, uomini di ogni retroterra culturale e ideale e religioso, cattolici, socialisti, comunisti, repubblicani, liberali, senza partito. E poi Modena, Monte Scaglioso, le lotte per l’emancipazione contadina, e il 1953 e il 1960. Tambroni, il congresso fascista di Genova, presieduto dal prefetto repubblichino che aveva decretato il rogo dei borghi delle alte valli della Liguria e dato ai nazisti i fucilati del Passo del Turchino. E i morti di Reggio Emilia e di Catania, e il 1964, De Lorenzo, e il 1969, il ’74, l’80, e le stragi fasciste di piazza Fontana, di piazza della Loggia, della stazione di Bologna. E ancora il terrorismo rosso, e il trasformismo deteriore del centrosinistra, con tutta la sua diffusa occupazione dello Stato e la spogliazione della cosa pubblica. Mai, dunque, tempi facili. Se oggi qui dobbiamo parlare della politica della memoria, un breve veloce excursus nei cinquant’anni che lasciamo alle nostre spalle deve essere fatto. Anche questo deve continuare a far parte della memoria storica del nostro Paese. Mai per chi come noi si riconobbe sempre nella democrazia, nella Resistenza e nella Costituzione disorientamento o delusioni o desiderio di ripiegare sui ricordi. Mai neppure oggi in un quadro politico tanto inquietante quale quello nel quale viviamo. Il dissolvimento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia furono visti anche da noi come la condizione necessaria per rilanciare i modi giusti della democrazia in tutti i Paesi del mondo, recuperando nel loro pieno significato quei principi di convivenza pacifica dei popoli, di pace, di giustizia, di solidarietà, tanto conclamati e tanto disattesi. E invece ecco gli spettri del passato irrompere sulla scena internazionale: il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia, addirittura con feroci contaminazioni tribali come in Bosnia, nel Ruanda e in Somalia. Decine e decine di guerre locali, di conflitti locali, di scontri locali con milioni di morti e lucro universale e tensione universale, mentre nuda appare l’organizzazione degli Stati, incapace di fermare l’odio, la morte ed il mercato delle arini. Questa, amici miei, non è una rappresentazione catastrofica, non vuole esserlo; è la rappresentazione dei fatti, per richiamare tutti alla consapevolezza ed alla necessità assoluta, irrinunciabile e permanente di un impegno civile. Le cose degli uomini sono difficili; noi non viviamo nel mondo migliore possibile. Nel cinquantesimo anniversario della Resistenza e della fine della guerra è l’irresponsabilità ed il rifiuto di ogni regola che guidano il confronto politico. Gli scioperi del marzo del 1944 che in una Europa messa a ferro e fuoco dai fascisti e dai nazisti imposero gli operai ed i resistenti italiani al rispetto del mondo, se non fossero stati ricordati in questi giorni nella città di Empoli e di Vinci, o di Montelupo e di Cerreto Guidi, in memoria degli operai toscani mandati dai fascisti in quei giorni a morire nei campi di sterminio nazisti, gli scioperi del marzo del ’44 sarebbero trascorsi nell’oblio delle celebrazioni del 50′ anniversario della Resistenza. Come siamo lontani da quel tempo. Allora si dava la vita per affermare valori sino a quel tempo negati per offrirli alla luce di una società nuova. Oggi si negano quei valori e vi si contrappongono interessi particolari di tornaconto particolare e di potere. Aggregazioni nuove, nel magma di una società che continua a trasformarsi, nella quale i fattori riferibili al ceto sociale o alla classe sono in perenne mutazione, si presentano sulla scena politica. Cipputi non c’è più, e l’operaio-massa non favoleggia più del suo ruolo di classe generale. Assistiamo semmai alla massificazione di nuovi ceti sociali che solo per convenzione continueremo a chiamare medi. Nascono blocchi sociali nuovi, ma sempre per escludere Cipputi, portatori di una cultura nuova, oscillante, portatori di modi nuovi di far politica, di modi nuovi di dire e di pensare politicamente. Una nuova cultura appresa dagli schermi anziché nella scuola e modi nuovi di fare politica, sperimentati nel mercato anziché nella democrazia. E così si celebra la Resistenza e se ne chiede l’archiviazione. Il passato deve passare. I valori hanno bisogno di uomini legati al tempo, alle idee, alla memoria; gli interessi hanno bisogno di uomini che vivano costantemente in un virtuale anno zero della storia. Il passato, dunque, deve passare; l’antifascismo è storicizzato, la lotta di liberazione ed i crimini diventano rappresentazione spettacolo: il passato deve passare. In questo superamento politico dell’antifascismo, in questa storicizzazione dell’antifascismo, alla quale sembrano guardare con interesse anche uomini non sospettabili di tiepidità democratica, in questa archiviazione della Resistenza, in questo giubilare i crimini e l’Olocausto in spettacolo, avulso dai processi storici che ne furono l’origine e la causa, si annidano – io ritengo che non sia irrazionale enfasi affermarlo – si annidano pericoli di morte per la nostra democrazia. Questi sono i temi del nostro congresso. L’antifascismo è ancora un valore politico? Perché antifascisti, non basta essere democratici oggi? E ancora: a quale memoria della storia dobbiamo impegnarci di dare un futuro? A quali memorie e con quali contenuti? Quale memoria può veramente contribuire per là generazione di oggi e di domani a creare un efficiente sistema immunitario che consenta a questi uomini di oggi e di domani di riconoscere e di distinguere tra il volto e la maschera della democrazìa. Si dice che la categoria dell’antifascismo, un dibattito che ha investito e investe e percorre tutto il Paese, e non solo il nostro Paese, si dice che la categoria dell’antifascismo sia arretrata, arcaica, superata. Si pone il quesito addirittura se l’antifascismo sìa mai stato democratico, e sì dice che il fascismo è finito, che l’antifascismo non ha più ragione di essere. Merita questo dibattito in corso nel nostro Paese, e non solo quì da noi, la massima attenzione possibile. Vi sono intervenuti Bobbìo, Revelli, Foa, Scoppola, Rusconì, De Felice, Colletti e Cafagna e altri. Non è un dibattito accademico, è un dibattìto dalla rìlevanza e dalla conseguenza politica rilevantissima. Per uscire dalle categorìe dello spirito e ancorarmi saldamente alle categorie della politica vorrei ricordare due fatti. Il primo: non è vero che fl fascismo sia stato politicamente liquidato a Fiuggi, perché rivive innanzìtutto esplicìtamente ancora nel Movìmento sociale di Rauti, perché ciò che conta non sono le parole ma le condotte degli uomini. E la condotta concreta di Alleanza nazionale è tutto meno che rispetto delle regole della democrazia costituzionale. Perché non è vero che Fini a Fiuggi abbia riconosciuto i valorì e i disvalori dell’antifascismo e del fascismo; anche qui una místíficazione interessata. Fini ha testualmente detto: “Se è giusto chiedere alla destra di affermare che l’antifascismo fu momento essenziale, altrettanto giusto è chiedere a tutti di riconoscere che l’antifascismo non è un valore a sé stante. Non è. E che la promozione dell’antifascìsmo da momento storico a ideologìa fu deliberata dal Partito comunísta soltanto per legíttirnare se stesso”. Ecco ancora una volta l’infficazione di una nuova aggregazione politica ad escludendum. E ancora perché la caduta di ogni remora a fare patti con la destra che ìeri, non l’altro ieri, ancora sfogliava l’album di famiglia, soffermandosì con amore e nostalgia davanti al ritratto del cav. Benito Mussolinì, grande statista del nostro secolo che tanto bene ha fatto al nostro Paese, almeno fino al 1938 incluso, sta a dimostrare che l’irrazionalità non è morta e che larga parte del pensiero politico del nostro Paese è afflitta da uno storico deficit di consapevolezza di cosa sia veramente la democrazia, un deficit di consapevolezza che percorre come un fiume carsico la storia del nostro Paese dal 1922 ad oggi. Due fatti ho detto di volere ricordare. Il secondo è che ancora si parla, nel filone revìsionista della storia che oggi si volgarizza nella politica, di un ruolo guida del popolo tedesco verso la fine del secolo, e non ne siamo lontani. Un ruolo guida, come è stato chiarito nell’íncontro tra Nolte, De Felice e Rusconi, riportato dalla stampa nel maggio del ’93, esercitato tramite la forza economica o valori culturali ed etici. Un ruolo guida che derivi dalla esperienza dei passato nazionalsocialista, che la Germania – sono parole di Nolte poste senza rifiuto indignato, come sarebbe stato dovuto da parte di Rusconi e De Felice – potrà realizzare, partendo dall’espefienza del passato nazionalsocialista che non deve rigettare per intiero. A chi mi chieda oggi se non basti essere democratici di fronte ad una dilagante cultura del mercato rispondo, di fronte a una dilagante cultura degli interessi, di fronte alla negazione dei valori, di fronte alla negazione dei contenuti etici della società e dei suoi valori di solidarietà, io rispondo a chi mi chiede se non basti oggì essere democratici che sino a quando non ví sarà intesa sulla parola democrazia, sino a quando non saremo in sintonia almeno sulla ìdentificazìone della cosa, rispondo che oggi è indispensabile continuare ad essere anche antifascisti. La memorìa, l’altro tema, quali i contenuti? I fatti, intesi come episodi, intesi come ciò che accade in un determinato anno, in un determinato periodo, il medaglione di una vìcenda umana conclusa in un determinato tempo. Questa è la memoria utile, e quindi la memoria degli accadimenti del ’43, del ’44, del ’45 sicuramente. Sicuramente anche nella storia così intesa le lacune sono baratri. Avrete letto i risultati di quell’ìndagìne che la Federazione ìtaliana deglì psicologi ha condotto su mille ragazzi fra i 16 e i 24 anni per conto dell’Associazione cattolica, delle Ach e del Museo ebraico di Casale Monferrato. La maggior parte di loro ha detto che la Notte deì cristalli è una festa nibelungica e che i pogrom sono parate militari o qualcosa del genere; non sa di San Sabba e del campo di sterminio di Trieste, non hanno un’idea delle leggi antisernite del 1938. Anche il ministro della Pubbiìca Istruzione questa mattina, nel breve ìncontro che ha preceduto il suo saluto qui al congresso, ha riconosciuto che il grande problema del nostro Paese è la formazione deì formatori, perché ciascuno insegna ciò che sa, ciascuno induce nel rapporto col giovane e lo studente i valori che ha dentro, e se dentro non ha valori, e se dentro non ha informazioni non trasferisce né informazioni né pensìero né valori. Questo è il grande problema, e le lacune sono enormi. Ho letto recentemente una indagine dell’Istituto storico della Resistenza di Belluno il quale ha svolto un’indagine presso i ragazzi delle scuole della provincia di Belluno (ricorderete tutti Erto, Casso, questa onda che dilava oltre la diga e che distrugge 2.000 vite in un pugno di secondi, e Lavarone). Ebbene, i ragazzi delle scuole di Belluno, interpellati, non sapevano di Lavarone. E questa è cultura, e questa è memoria, perché dìetro Lavarone non ci sono i valori ma gli interessi, perché la diga fu tenuta nonostante gli allarmi dei geologi che dicevano che avrebbe potuto la montagna circostante dìrupare nell’invaso e far dilavare l’onda debordandola, come poi avvenne, oltre la diga a distruggere la valle. E i ragazzi non lo sanno. Ho letto pochi giorni fa un’indagine di un Comune in provincìa di Milano, Vaprio d’Adda, che ìnterrogando i giovani con dei temi ha potuto constatare che la maggior parte dei ragazzi ritiene che Piazza Fontana sia stato un atto delle Brigate Rosse al comando di Vallanzasca. Questo è stato quello che ne è uscito come infonnazione. lo stesso, per misurare la insufficienza drammatica dell’informazione, ricordo che pochi giorni fa una signora dirigente di una banca del centro di Milano è venuta nel mio studio per raccomandarmi la vicenda di suo padre internato militare in Germania durante la guerra, e avendo io esposto alcunì argomenti a un certo punto mi ha domandato: “Ma lei è ebreoT’ E avendo io detto di no: “Ma lei è stato deportato?” “Sì” “Dove è stato?” “A Mauthausen” “Ma c’erano anche i non Ebrei tra i deportatiT’. Questo vuol dire dimenticare quello che un sistema politico come il fascismo e il nazismo hanno fatto come processo per realizzare il consenso di massa attraverso la repressione e la violenza. Quindi anche sul piano della pura informazione è necessario muoversi. Ma anche se queste informazioni sui fattì sin- goli fossero più estese e ampie, questa più ampia conoscenza sarebbe sempre di per sé insufficiente per costituire per le generazioni un reale efficiente sistema immunitario, che consenta loro di distinguere tra la maschera e il volto della democrazia. La memoria per essere immunitaria deve andare oltre, non basta dire che il fascismo nel 1943 si è alleato con i nazisti e ha collaborato con loro per tenere l’Italia sotto la loro occupazione e che ha collaborato per mandare degli uomini a morire nei campi di sterminio. Bisogna spiegare perché. La Resistenza e la deportazione non nascono l’8 settembre del ’43; la Resistenza nasce nel 1922, quando non tutti gli uomini sono stati capaci di battersi per contenere la resistibile, allora, ascesa di Benito Mussolini. Nasce nel ’24 quando tutti gli uomini del nostro Paese non hanno saputo reagire all’aggressione nei confronti delle istituzioni, alla delegittimazione del Parlamento, hanno ritenuto che la piazza avesse maggiore rilevanza, non hanno saputo reagire all’impossessamento dei mezzi di informazione e di comunicazione da parte del fascismo. Non hanno saputo vedere il crimine quando tutti i giornali delle grandi città italiane erano tutti, nessuno escluso, nelle mani di un gerarca fascista. Nasce la Resistenza quando non si sa reagire nel ’33 alla febbre delle elezioni che avrebbero dovuto, nel loro succedersi rapidissimo, risolvere i problemi della stabilità. Amici cari, la storia o è progettuale, o è imiseografia; ma non è mai memoria storica. Non quindi i soli fatti debbono essere narrati, ma con i fatti le loro cause prossime o remote, cioè chi è informato di Mauthausen deve sapere come ci si è arrivati a Mauthausen, per quali processi storici, per accumulazione di quali illegalità e illegittimità, per quale continuo aggregarsi di forze contrarie alla democrazia, per quali microferite che nella loro somma finiscono per essere poi una aggressione che uccide la democrazia in un Paese. Quindi per dare alla memoria un futuro bisogna anche impegnarsi sui contenuti della memoria come maestra per la vita di oggi e di domani. Resta il problema dei mezzi. Il nostro compagno ed amico Dario Venegoni, un giovane giornalista che si è accollato il compito di portare avanti il nostro periodico “Triangolo Rosso”, nell’ultimo numero di questo giornale ha scritto una sua provocazione culturale. Dario Venegoni è figlio di due ex deportati nel campo di Bolzano, di Ada Buffulini e di Carlo Venegoni, di militanti antifascisti che hanno riempito di sé la storia della lotta antifascista. Venegoni scrive che 1’esperienza storica dell’Aned, così come si è sviluppata in questi cinquant’anni si è fisiologicamente conclusa”. E perché dice questo, prospettando quindi la necessità di accettare questa conclusione fisiologica per sostituirvi una nuova organizzazione fatta di contributi professionalmente e scientificamente più avanzati per la raccolta di documenti a livello storico? Dice questo partendo da una sua ultima dolorosa esperienza, perché ha seguito – scrive – “con trepidazione e angoscia il procedere inesorabile dell’agonia di Carlo Scussat”, un nostro compagno che umile e cortese era sempre nella nostra associazione a dare una mano al lavoro di tutti. Quindi ha scritto di questa morte sul ‘7riangolo Rosso” e si è reso conto che sul nostro giornale i necrologi e i ricordi dei caduti continuano con progressione geometrica a comparire. Allora si domanda: per quanto ancora? E scrive: l’esperienza dell’Aned si è fisiologicamente conclusa, dobbiamo riconoscerlo. Caro Dario Venegoni, vuoi che io non sappia che la morte è un dato della vita? Vuoi che noi compagni che siamo ancora qui non si sappia tutti che è il dolore che è fisiologico semmai alla nostra vita, il dolore di vedere tanti nostri compagni scomparire? Abele Saba, questo stupendo nostro segretario generale che non è più tra di noi, o Andrea Devoto di Firenze, questo scienziato, così io credo che si possa definirlo, questo ricercatore, questo professore universitario che ha capito che tra gli impegni della sua capacità culturale ci doveva essere anche quello di scrivere, di parlare, di indagare, di raccogliere, di documentare sulla deportazione degli uomini e delle donne italiane. Ma volete che non siamo capaci tutti noi di registrare il vuoto che ha lasciato in noi la morte di Bruno Fabello o di Nella Bellinzona o di Marco Brasca o di Ada Buffulini e di Giovanni Postogna? Ma soltanto tra un congresso e l’altro noi abbiamo perso 12 nostri dirigenti del Consiglio nazionale. Ebbene, questo vuol dire che l’esperienza storica della Associazione dell’Aned si è fisiologicamente conclusa? questo vuol dire che alcuni compagni non sono più qui tra noi a portare avanti con noi la lotta, l’impegno comune di tutti. Certo, dice Venegoni cosa vera e giusta, dobbiamo porre mano ad una organizzazione nuova, per costruire le basi della memoria, perché la memoria abbia un suo futuro che non dipende dal nostro desiderio, ma dal suo intrinseco valore per le documentazioni che ella accoglie, dobbiamo avere raccoglitori di memoria che siano professionalmente molto preparati. E quindi le Università, gli Istituti storici delle Università, la scuola, i professionisti della cultura, i professionisti dei mezzi tecnici per la raccolta delle memorie. Sicuramente quindi una organizzazione nuova, professionalmente più avanzata, con più alte qualità scientifiche per tutte le risposte che noi siamo chiamati a dare. Ma questo vuol dire se costruiamo questa organizzazione che l’esperienza dell’Aned per altro verso, cioè sul versante dei testimoni, si è fisiologicamente conclusa? lo non lo credo. Altra cosa è l’organizzazione, altra cosa è l’associazione. Nell’associazione ci sono dei testimoni. I testimoni hanno visto; quando andiamo nelle scuole io mi rendo conto, ciascuno di noi si rende conto della rilevanza incommensurabile che ha il testimone. La memoria storica è la strutturazione quasi di un processo; nel processo vi sono i testimoni, hanno visto, hanno detto, possono dire a chi risalgono e per quali ragioni le responsabilità. Chi raccoglie soltanto documenti può raccogliere quello che c’è ed è stato lasciato da chi ha visto. Perché i nazisti non hanno lasciato documenti, i fascisti non hanno lasciato documenti, quindi i ricercatori, con tutta la loro professionalità, non possono andare negli archivi, trovare gli scritti, perché delle conferenze per la soluzione finale del problema ebraico non ci sono verbali i quali consacrino le parole dette e gli impegni assunti dal governo nazista nel 1941-42. E così per i fascisti. I ricercatori possono trovare soltanto come documenti le memorie che i testimoni hanno lasciato. Abbiamo di recente pubblicato, curato da Jalla e dalla Bravo il volume sotto gli auspici della Regione Piemonte “Una misura onesta”. In quel volume sono censiti tutti i documenti ai quali coloro che vogliono sapere della deportazione possono attingere. Che documenti sono? Sono le centinaia di memorie orali raccolte; sono le centinaia di articoli scritti per brevi memorie, i diari. Questo è il materiale, questi sono i reperti, non altri. Ecco quindi che in questa ottica ben venga e deve venire una organizzazione nuova, professionalmente più ricca, scientificamente più preparata per indagare e raccogliere, ma la fisiologia della testimonianza non potrà mai essere conclusa fino a quando l’ultimo testimone non avrà chiuso gli occhi. lo credo che su questa riflessione noi possiamo concludere questo nostro incontro e spero e penso che su queste riflessioni ciascuno di voi dia nel corso di questi giorni il massimo dei contributi possibile. Grazie.
CASTELLANI – Qui ci sono dei ragazzi della scuola “Rodari” che vogliono distribuire a tutti alcuni regalini. Grazie.
MARIS – Vorrei soltanto leggervi, e a questo fine chiedo la vostra attenzione, uno dei telegrammi che abbiamo ricevuto e che ci è dispiaciuto di ricevere perché noi avremmo voluto avere con noi chi ci ha mandato ìl telegramma, perché questa era l’intesa che avevamo raggiunto dopo che Oscar Luigi Scalfaro era stato a Mauthausen, aveva scritto quel pensiero sulla deportazione che noi avevamo pubblicato anche sul “Triangolo Rosso”, ed aveva poi partecipato ai nostri lavori in Carpi. Ma i tempi che viviamo sono difficili anche per lui, e allora ci ha mandato un telegramma: