Bologna

Alcune riflessioni di una ragazza di ritorno dalla visita ai campi di Ravensbrück, Sachsenhausen e Buchenwald; viaggio organizzato adll’ANED di Bologna nei giorni 18-28 giugno 1993 
Ravensbrück 1993
L’arrivo. Inaspettato il lago quieto, azzurro grigio, poco sole e nuvole color del lago. Intorno boschi e silenzio. Alta su una colonna, una figura di donna, disperata forse ma dignitosa e forte. Fra le sue braccia il prezzo della nostra libertà. All’ingresso del campo le parole di Anna Seghers incise su una lastra di marmo:
 

“Esse sono tutte madri e sorelle. Voi potete oggi imparare a giocare liberi! Voi forse non eravate ancora nati quando queste donne hanno esposto i loro pur deboli e gracili corpi, come scudi di acciaio, lungo tutto il tempo del terrore nazifascista, per voi e il vosto avvenire”
 
Ravensbrück 1943
 

“Un’immenso recinto. Barcche e baracche. A perdita d’occhio. Altissimi pali di cemento armato sostengono il filo spinato elettrificato che circonda il campo. In mezzo, una grande porta: sulla porta una scritta terribile: F. K. L. Ravensbrück”.
 
Ravensbrück: ponte dei corvi. Ravensbrück: Lager tutto di donne

Ve ne sono state immatricolate 125.000, internate circa 130.000, gassate 100.000; le altre sono quasi tutte morte per fame, stanchezza, malattia, disperazione… I racconti estremamente misurati, di Nella e Clara, ascoltati in pullman mentre raggiungevamo il campo, le loro parole di ex-deportate di Ravensbrück, rendono vivo questo luogo che altrimenti direbbe poco di sé. Gli alberi curati, gli spazi aperti e vuoti di dolore, i monumenti ben tenuti, tutto questo non ha quasi nulla in comune con ciò che il Lager era, con la non-vita che là veniva condotta. Solo adesso, tramite la presenza delle testimoni, qua dove patirono, il campo di concentramento diventa concreto, assurdamente possibile, e al presente si sovrappone la visione del Lager di allora. Il loro racconto diventa quasi inscindibile da questo luogo, dal posto dove le vicende sofferte sono avvenute. La lezione dei luoghi allora, intrecciata ai racconti delle protagoniste, diventa determinante per una profonda comprensione dello sterminio nazifascista.

Le loro testimonianze, però, sono un insegnamento da cui trarre non soltanto conoscenze, ma anche e soprattutto motivazioni forti di ordine eticosociale. Dai loro racconti emerge non solo la “vera essenza della deportazione”, ma prendono corpo realtà sconvolgenti che in parte gli uomini hanno voluto cancellare. Punti focali, invece, per la comprensione della storia e delle società contemporanee. In questo modo il Lager diventa il tramite non solo per comprendere l’esperienza concentrazionaria, ma anche per diffondere la lezione preziosa che gli ex-deportati hanno saputo trarre da essa: un’idea di uguaglianza nel rispetto delle differenze, che diviene lotta contro ogni tipo di discriminazione, un compito che tutti sono chiamati ad assolvere. Chi oggi opera per bruciare i “Fili della memoria” agisce, purtroppo, con oculatezza. I gruppi che deturpano i monumenti ai deportati sono gli stessi che organizzano lanci di molotov agli ostelli degli immigrati, in Germania come in Italia. Oggi quei “fili” si difendono insieme al turco disoccupato, allo zingaro, al fianco della donna tunisina. Chi non vuole imparare dalla storia è condannato a ripeterla, anche se la storia non torna mai uguale a se stessa.
Non dobbiamo dimenticare. Non soltanto perché quel passato non si ripeta nel suo aspetto estremo, ma soprattutto affinché nessun focolaio di oppressione e di sfruttamento sia tollerato. Affinché i modi di intendere e ordinare la vita e le relazioni tra gli uomini e le donne vengano rinnovati.

Le parole di Nella e Clara ci sono preziose. Oggi più che mai, la loro testimonianza è socialmente vitale e racchiude una grande valenza educativa. Il loro insegnamento può essere trasmesso, comunicato, condiviso, può dare luogo ad apprendimenti di valori positivi, ma occorre impegnarsi a raccogliere e custodire la loro memoria – la memoria dell’offesa estrema – diventando narratori e divulgatori della loro esperienza, testimoni indiretti della deportazione.

Rossella Ropa Bologna