L’esperienza politica e didattica nel libro di Lia Finzi e Girolamo Federici
Arriva in libreria “I ragazzi del collettivo – Il convitto Francesco Biancotto di Venezia, 1947-1957 “, a cura di Lia Finzi e Giroiamo Federici, Marsilio Editore. Pubblichiamo ampi stralci della presentazione di Giovanni Scarabello.
Alla fine dell’aprile 1945, anche Venezia e il Veneto, dove forte era stata la guerra partigiana, furono liberati.
I segni e le conseguenze della guerra erano gravi, ma la riconquista della pace e delle libertà democratiche aveva creato un clima di grande vitalità umana, aveva creato voglia di ricostruzione materiale e morale, aveva creato vivacissime aperture culturali, aveva creato in molti la speranza che quel “momento buono” (così il titolo delle memorie di Mario Bernardo, il partigiano “radiosa aurora”) avrebbe aperto la strada ad altre conquiste di libertà, compresa la conquista di una maggiore giustizia sociale e di una maggior equità e assennatezza nell’uso delle risorse della terra e nella loro distribuzione tra i popoli e tra gli individui.
Già a fine luglio di quello straordinario anno 1945, alcuni ex resistenti e primo fra essi il comunista Angelo Furian, si fecero promotori a Venezia della istituzione di una struttura nella quale potessero essere accolti, mantenuti e seguiti nella scuola, giovani orfani di partigiani.
Si formò un comitato promotore con larga partecipazione, fra gli altri, di ex partigiani, di operai e intellettuali. Si lanciarono sottoscrizioni per la raccolta di fondi. Si individuò una possibile sede nel complesso di palazzine e cortili che avevano ospitato la Gioventù italiana del littorio nel se-
stiere di Dorsoduro, in fondamenta dei Cereri.
L’istituzione – un convitto di carattere laico e privato – incominciò a funzionare nel giugno del 1947. Fu intitolata a Francesco Biancotto, un giovanissimo partigiano comunista fucilato dai fascisti, nel cui nome aveva operato a Venezia una brigata di giovani e giovanissirni partigiani. I contributi per il sostentamento dell’istituzione vennero soprattutto dalla popolazione veneziana, dagli operai di Portomarghera, dalle associazioni partigiane, dal comune, da certi ministeri statali come quello dell’assistenza post-bellica, da altre associazioni ed enti ancora.
Fin da quando, nel 1947, il convitto Francesco Biancotto” incominciò a funzionare, dovette fare i conti con le contrapposizioni che percorrevano la società e con gli attacchi dell’establishment il quale non intendeva tollerare che si portassero avanti tra i giovani e per i giovani sperimentazioni di formule educative e di vita concretamente intonate alla cultura laica.
Per altro verso, al “Biancotto” andavano però anche emergendo difficoltà e carenze della direzione circa la scelta e la elaborazione di equilibrate, intelligenti, efficaci linee organizzative ed educative. I convittori (da un certo momento circa un’ottantina) vivevano e studiavano nell’istituto e frequentavano le scuole pubbliche fuori. Essi venivano principalmente dal Veneto, dal Friuli, dall’Emilia e dalla Toscana, le loro famiglie erano per lo più contadine e operaie, le difficoltà di ambientamento non erano poche.
Intanto, le azioni per estromettere dalla sede il “Biancotto” e per soffocarlo si erano fatte persino violente e ci furono giornate drammatiche come quelle che videro la Celere (ministro degli Interni era Mario Scelba) scagliarsi, nel maggio del 1951, contro gli istitutori e i convittori (nel 1950 c’erano state repressioni durissime a Portomarghera come a Modena, come a Melissa). Su altri piani, l’attacco era portato con la sequela delle azioni di sfratto, con la nomina statale di un commissario liquidatore, con l’esclusione dell’istituto da certi canali di assistenza, con sgarbi e provocazioni d’ogni genere. Si arriverà addirittura a erigere un “muro” per isolare i convittori. Un muro di mattoni, non un muro metaforico! Fra il 1951 e il 1956 l’esperienza andò avanti grazie alla lotta dei ragazzi, degli istitutori e delle forze che, da fuori, sostenevano in varie forme il “Biancotto”. L’esperienza andò avanti e si arricchì. Si formò un consiglio dei ragazzi accanto al consiglio dei maestri; si procedette a revisioni a proposito dei moduli concettuali dai quali far discendere le regole per la disciplina; furono elaborate ipotesi per nuove e diverse impostazioni educative e didattiche e su questo terreno si cercarono contatti con altre esperienze italiane e straniere; si stimolò la partecipazione delle famiglie e si creò il consiglio delle mamme; soprattutto (e fu forse la realizzazione più importante, più bella) si creò il “collettivo”, cioè uno strumento istituzionalizzato posto nelle mani dei ragazzi perché servisse ad essi per partecipare direttamente alla ideazione e alla gestione dei momenti collettivi del loro vivere fisico e intellettuale nell’istituto. Un vivere che, come si è visto, continuava concretamente anche a significare resistenza.
La conclusione dell’esperienza del “Biancotto” si verificò nel 1957. La decisione di chiudere fu presa dall’ANPI centrale. Una decisione che probabilmente era anche legata alle contraddizioni che andavano emergendo a livello internazionale e nazionale sia nei rapporti tra partiti della sinistra e sia all’interno medesimo del partito comunista. Fu una conclusione inaspettata in quanto che, anche se l’istituto era in gravi difficoltà per via della espulsione dalla sede e per via dell’indebolimento del corpo direzionale, pareva che stesse per aver successo l’iniziativa concreta (si era formato un prestigioso comitato) per trovare una nuova sede, libera dalle ipoteche dell’establishtnent, e per lanciare un rinnovato “Biancotto”.
Lia Finzi e Girolamo Federici furono tra i protagonisti dell’avventura del “Biancotto”. Protagonisti in toto, anche se, in particolare, essi ebbero ad occuparsi dei settori della didattica e della cultura.
A distanza di anni, ora, del “Biancotto”, essi ci raccontano la storia. Quella storia cui in estrema e inadeguata sintesi ho accennato più sopra.
Il libro, che si presenta come una vivace tessitura di sequenze narrative che prendono, lasciano, riprendono i nuclei tematici di fondo (vicende umane, vicende socio-politiche, vicende culturali), non dimentica Venezia, cioè la città nella cui originalità storica e ambientale si collocò l’esperienza del “Biancotto”.
Venezia, ci ricordano ancora suggestivamente gli autori, era una città nella quale, ai tempi della Repubblica Veneta, aveva funzionato per secoli una imponente e variegata rete di strutture assistenziali gestite dall’associazionismo e dal volontariato laico (ancorché ispirato da motivazioni di cristiana carità), strutture che erano state liquidate dopo la fine della Repubblica e sostituite dagli istituti della “Beneficenza” di stampo ottocentesco controllati direttamente dallo stato o dalla chiesa. Ecco allora che, volendolo, noi possiamo idealmente collocare il “Biancotto”, proprio nel solco di quella lontana tradizione “forte” dell’associazionismo assistenziale che era stato caratteristica importante della città. il “Biancotto” che nacque e visse sorretto dalla solidarietà laica e popolare e svolse la sua azione di assistenza e di formazione a favore dei ragazzi accolti, nel corso di anni grandemente vitali oltreché – nel senso indicato da Brecht – grandemente duri e difficili. Il “Biancotto” che fu, per tanti democratici di allora, uno dei segnali vivi che la Resistenza continuava, doveva confinuare.
Giovanni Scarabello