Il 27 gennaio scorso, in occasione del 50° anniversario della liberazione di Auschwitz, gli studenti della scuola ebraica milanese hanno organizzato un Incontro con loro coetanei di alcuni licei. Emanuele Fiano, assessore alla Cultura della Comunità, ha svolto l’intervento che di seguito volentieri pubblichiamo. 
Ma oggi è una giornata di lutto o di allegria? Come deve colorirsi il nostro ricordo dell’apertura di quel portone dove riposano, in cielo, i nostri cari.
Nella festa ebraica che per eccellenza ricorda la liberazione, il Pesah, la gioia per la libertà non dimentica mai l’amarezza del lutto, non esiste liberazione dalla schiavitù senza dolore. La memoria umana non è un byte, non è un dischetto dove tutto è descritto senza possibilità di errore, la memoria non è mai neutra, passiva. Oggi noi ricordiamo una liberazione, un fatto positivo si stampa nella nostra sensazione a ritroso, per noi che siamo nati dopo, oggi è stata la drammatica interruzione di un inferno. Ma è solo questo? Questo completa tutta la gamma di sentimenti che deve corrispondere a quel ricordo? Oggi è anche un giorno di lutto, lo è prima di tutto perché noi onoriamo qui la memoria delle persone che non sono più’, sia quelle che sono state assassinate ad Auschwitz, o negli altri campi sia quelle che la morte ha raggiunto più tardi, poi lo è anche perché i lager rappresentano simbolicamente il lutto della ragione, il suo punto più basso, il lutto dell’umanità, dell’Europa e del popolo tedesco in primis, popolo che si era, si è perduto, ma, infine, io credo che oggi noi si ricordi anche che quando loro (Teo, papà, Liliana) uscirono da quei campi come uomini liberi cominciò per loro un’odissea similmente drammatica, l’odissea del racconto, del cercare di fare capire, di condividere con noi per dove erano passati, quali abissi avevano conosciuto, io mio malgrado non credo che ci riusciranno mai fino in fondo. Dove? Dove eravamo noi, in quella giornata del 27 Gennaio 1945? Dove erano localizzati il nostro futuro, i nostri sorrisi, la nostra voglia di vivere, la nostra tenacia, il nostro ottimismo. In quella neve sciolta tra le rovine delle camere a gas, nel silenzio vociante degli ultimi respiri dei morenti, nell’atmosfera grassa di fumo umano, c’eravamo noi, la nostra possibilità di esistere, di nascere e di morire; c’eravamo noi che siamo nati dopo, che moriremo dopo, dopo di loro che sono là rinati dopo morti. Qui dentro riposa uno dei caratteri della tentazione a dimenticare che tortura a volte il sentiero della ragione nel genere umano; il fatto di dire, forse io c’ero, c’era la mia possibilità ipotetica di commettere crimini contro l’umanità, c’era la mia possibilità di essere razzista, di essere antisemita, di essere assassino. Non si può ammettere di essere stati fratelli di quei contadini tedeschi o polacchi o italiani che non hanno voluto vedere o ascoltare, le grida e l’odore, non si può ammettere che un altro essere umano, un nostro simile, sia stato carnefice, torturatore, violentatore, si sia trastullato con i capelli o gli occhiali o i denti d’oro delle nostre nonne, abbia silenziato col fuoco le urla delle nostre madri. E’ questo che ci fa paura, ci fa paura la verità, la terribile “banalità del male”, di Hanna Arendt, la semplicità del nostro comune baratro.
Ma anche noi, noi figli di deportati, cresciuti nel culto di Auschwitz come fucina della nostra coscienza, quante volte abbiamo detto basta, calma, non possiamo esagerare, non solo di questo dobbiamo nutrire la nostra militanza di ebrei, di democratici, di uomini di progresso; dobbiamo aver fiducia, la stella polare di Auschwitz si è già inscritta per sempre nel firmamento delle società civili, noi non dobbiamo ostentarla. Abbiamo forse esagerato nel ricordo per rendere esagerato l’impatto? Può la forza dell’ostentazione, il pericolo della ridondanza offuscare la natura educativa del ricordo dei lager? No, io non lo credo, non credo che questa sia un’equazione dello spirito, il nostro monumento immateriale, quello che abbiamo eretto dentro di noi può e deve essere più forte e più limpido della semplice retorica, deve perpetuarsi come valore e non come immagine, deve per noi funzionare da paradigma nella vita di tutti i giorni, strumento di discrimine sulle scelte morali, non immagine votiva da idolatrare. Liberati ad Auschwitz. Anche noi potremmo essere stati liberati ad Auschwitz. Noi tutti. Potremmo considerarci liberati se faremo nostra la forza di chi è sopravvissuto, se caricheremo sulle nostre spalle la perpetuazione del suo messaggio. Essere uomini liberi oggi, può apparire semplice come un percorso naturale, per voi ragazzi soprattutto, essere liberi oggi significa fare quello che si vuole, non porre limiti alle proprie possibilità se non quello delle leggi democratiche vigenti, ma noi non saremo uomini completamente liberi se non ci saremo anche liberati, con le nostre mani, liberati. La libertà è un bene prima di tutto interiore, che non si assimila nutrendosi del latte materno, ma si conquista volontariamente, giorno per giorno conquistando e difendendo i propri e gli altrui diritti contro ogni sopruso e primo tra tutti difendendo la libertà dei nostro simile. E’ questo il grande messaggio di Auschwitz, il grande messaggio della sconfitta che ci sta dietro, sconfitta di sangue, ma sconfitta, la sua liberazione ha liberato l’intera umanità, la sua cancellazione può cancellare l’umanità.