di Primo Levi
In molte occasioni noi, reduci dai campi di concentramento nazisti, ci siamo accorti di quanto poco servano le parole per descrivere la nostra esperienza. Funzionano male per “cattiva ricezione”, perché viviamo ormai nella civiltà dell’immagine, registrata, moltiplicata, teletrasmessa, ed il pubblico, in specie quello giovanile, è sempre meno propenso a fruire dell’informazione scritta; ma funzionano male anche per un motivo diverso, per “cattiva trasmissione”. In tutti i nostri racconti, verbali o scritti, sono frequenti espressioni quali “indescrivibile”, “inesprimibile”, “le parole non bastano a…”, “ci vorrebbe un nuovo linguaggio per…”. Tale era infatti, laggiù, la nostra sensazione di tutti i giorni: se tornassimo a casa, e se volessimo raccontare, ci mancherebbero le parole: il linguaggio di tutti i giorni è adatto a descrivere le cose di tutti i giorni, ma qui è un altro mondo, qui ci vorrebbe un linguaggio “dell’altro mondo”, un linguaggio nato qui.
Con questa mostra abbiamo tentato di adottare il linguaggio dell’immagine, consapevoli della sua forza. Si tratta, come ognuno può vedere, di fotografie sapienti, ma non ritoccate, non “artistiche”; ritraggono i Lager, in specie Auschwitz, Birkenau, e la sinistra Risiera di San Sabba, quali si presentano oggi al visitatore. Mi pare che dimostrino quanto afferma la teoria dell’informazione: un’immagine, a parità di superficie, “racconta” venti, cento volte di più della pagina scritta, ed inoltre è accessibile a tutti, anche all’illetterato, anche allo straniero; è il miglior esperanto.
Non sono osservazioni nuove, le aveva già formulate Leonardo nel suo Trattato della pittura; ma, applicate all’universo ineffabile dei Lager, acquistano un significato più forte. Più e meglio della parola, riproducono l’impressione che i campi, bene o mal conservati, più o meno trasformati in alti luoghi o santuari, esercitano sul visitatore; e, stranamente, questa impressione è più profonda e sconvolgente su chi non c’era mai stato che non su noi pochi superstiti.
In molti fra noi, sulla commozione reverente prevale ancor oggi il vecchio trauma, l’ustione del ricordo, e quindi il bisogno di rimuovere. Se al momento della liberazione ci fosse stato chiest “Che volete farne, di queste baracche infette, di questi reticolati da incubo, dei cessi multipli, dei forni, delle forche?”, penso che la maggior parte di noi avrebbe rispost “Via tutto. Spianate tutto, radete tutto al suolo, insieme con il nazismo e con tutto quello che è tedesco”. Avremmo detto così (molti hanno risposto così nei fatti, abbattendo il filo spinato, incendiando le baracche) ed avremmo sbagliato. Non erano orrori da cancellare.
Col passare degli anni e dei decenni, quei resti non perdono nulla del loro significato di monumento-ammonimento; anzi, ne acquistano. Insegnano meglio di qualsiasi trattato o memoriale quanto disumano fosse il regime hitleriano, anche nelle sue scelte scenografiche ed architettoniche: nell’ingresso al campo di Birkenau, qui così bene ritratto nello squallore della neve e nella nudità senza tempo del paesaggio, si legge un “lasciate ogni speranza” dantesco, e nulla meglio dell’immagine potrebbe rendere l’ossessione ripetitiva dei fanali che illuminano la terra di nessuno tra il reticolato elettrico ed il filo spinato.
Diverse, ma non meno suggestive, sono le fotografie della Risiera. Era proprio e null’altro che una risiera, un impianto per il trattamento industriale del riso costruito al tempo in cui buona parte del cereale importato dall’estremo oriente veniva sbarcato a Trieste; ma nella conversione di quella fabbrica in un luogo di tortura si ravvisa una fantasia teatrale e maligna. Non doveva essere stata fatta a caso la scelta di quei muri altissimi, massicci e ciechi. Visitarla oggi, od osservarne le immagini qui riprodotte, ci fa ricordare che, oltre che un fanatico megalomane, Hitler era anche stato un architetto mancato, che la scenografia delle parate oceaniche faceva parte essenziale del rituale nazista (e della sua attrattiva per il popolo tedesco), e che Speer, questo genio ambiguo dell’organizzazione, ed architetto ufficiale del Reich Millenario, era stato il più intimo confidente del Fuhrer e l’organizzatore del feroce sfruttamento della manodopera gratuita fornita dai Lager.