Fondazione Isec – Villa Mylius
Largo Lamarmora 17 – Sesto San Giovanni (MI)
5 novembre 2015 ore 17.00

Presentazione del volume
Giuseppe Valota, Dalla fabbrica al lager.
Testimonianze di familiari di deportati politici dall’area industriale di Sesto San Giovanni (Mimesis, 2015)

Interverranno, oltre all'autore:

  • Gianni Cervetti, presidente di Fondazione ISEC
  • Rita Innocenti, assessora alla cultura del Comune di Sesto San Giovanni
  • Dario Venegoni, presidente dell’Associazione Nazionale ex deportati nei campi nazisti
  • Luigi Ganapini, Università di Bologna

 

Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo l'introduzione al volume di Valota, a cura di Dario Venegoni.

 

Un coro possente

di Dario Venegoni

La deportazione nei campi nazisti dei lavoratori del polo industriale di Sesto San Giovanni vista con gli occhi di chi è rimasto a casa. In questo libro sentiamo per lo più voci di donna: parlano le madri, le mogli, le figlie – più raramente i figli – dei lavoratori che vennero presi una notte, in casa, dai fascisti per essere consegnati ai nazisti e deportati. Un viaggio per i più senza ritorno.

Peppino Valota nell’arco di oltre vent’anni di lavoro paziente ha composto un racconto potente, indimenticabile: il racconto della classe operaia, della grande impresa, della vita che attorno alla fabbrica ruotava, nel bene e nel male; della vita vera, concreta, dura, di tante famiglie private di punto in bianco dell’unico sostegno. Ma anche della solidarietà, di quella spontanea, semplice, diretta, e di quella organizzata (il “Soccorso Rosso”) che sfidava il coprifuoco e metteva dietro alla porta della famiglia del deportato un frutto, un pezzo di pane, qualche soldo: mani anonime che ti dicevano che non eri sola.

Le interviste ci portano nell’intimo di case operaie, povere, senza agi, dove manca spesso anche l’essenziale. Decine e decine di volte ascoltiamo il racconto doloroso di donne che non credevano che il loro compagno fosse iscritto a un partito antifascista, che non sapevano della sua attività clandestina, che hanno subito il suo arresto come un colpo a tradimento, e che sono rimaste da un giorno all’altro senza risorse, coi figli e la casa da mandare avanti in mezzo alla guerra, alle “tessere” dei beni razionati, ai bombardamenti, senza notizie del proprio caro.

Vicende tanto simili da sembrare quasi sempre la stessa, non fosse per quei particolari unici che fanno di ogni racconto una storia viva, inconfondibile.

Colpiscono i nomi di tanti protagonisti. Nomi che parlano degli ambienti d’origine e anche dell’immigrazione di massa da tutta Italia verso un comune che aveva più posti di lavoro che abitanti: Dimitri, figlio di Libero, e poi Celeste, Oronte, Tranquillo, Jasmine figlia di Empidonio, a sua volta fratello di Imera, Epidonia, Siepe e Venere, e poi ancora Adalgisa, Mercede, Speranza, Lisimaco, Gaspero, fino a Delma, moglie di Athos, a sua volta fratello (poteva non essere così?) di Aramis…

Le donne parlano dei loro matrimoni poveri, dell’emigrazione, delle loro dure giornate con la semplicità di chi non è stato abituato ad attendersi dalla vita niente di diverso.

Eppure, sommato uno all’altro, il loro racconto assume la forza di un coro possente, di una sorta di dies irae, una condanna implacabile verso i fascisti che sono venuti a casa loro, di notte, a portare via il marito, quasi fosse un delinquente, con lui che ha capito e che forse sa, e che bisbiglia solo poche raccomandazioni prima di scomparire nel buio del coprifuoco.

Restano indimenticabili i racconti del peregrinare delle donne da un carcere all’altro – a Monza, ma anche a Milano, a San Vittore e all’Hotel Regina, sede del comando nazista – e poi le corse a Bergamo, alla caserma Umberto Primo dove erano stati radunati, nel marzo 1944, gli scioperanti da deportare a Mauthausen. Fino al giorno in cui il dramma collettivo si compie, alla stazione di Bergamo dove centinaia di prigionieri vengono sospinti nei carri bestiame, mentre forse un migliaio di parenti – ancora una volta, in massima parte donne – gridano, cercano di avvicinarsi, provano a richiamare l’attenzione del loro caro per un ultimo sguardo, un ultimo saluto. Una bolgia. Una tragedia che si consuma tra grida e pianti: quella figura scorta in lontananza, quel braccio agitato in un saluto, quell’uomo che non sa trattenersi e piange come un bambino rimarranno per sempre, per la maggioranza, l’ultimo ricordo di un marito, di un figlio che da quel momento scompare, inghiottito dalla macchina dello sterminio nazista.

Quando il treno parte qualcuna non si arrende e lo insegue fino a Brescia con mezzi di fortuna. Poi più nulla: da Mauthausen gli italiani non scrivono a casa; nessuno sa più nulla di loro fino alla fine della guerra.

Sui binari dai quali è partito quel tragico treno restano centinaia di bigliettini buttati dai prigionieri: c’è chi li raccoglie e si dedica al pietoso compito di recapitarli, discretamente, senza dare nell’occhio ai fascisti onnipresenti: a decenni di distanza le vedove e i figli mostrano a Valota quei bigliettini, reliquie di un mondo, di una vita.

Rimaste sole le compagne dei deportati si tengono in contatto, si sostengono, si aiutano come possono. A pensarci bene, l’ANED, l’associazione degli ex deportati e dei familiari, è nata su quelle banchine ferroviarie, tra quelle donne violate negli affetti più intimi, in quella solidarietà, tra quei bambini cresciuti senza il padre, prima ancora che i primi superstiti facessero ritorno a casa, più di un anno dopo, con i loro racconti di orrore e con le testimonianze che in tanti casi hanno spento per sempre le speranze di chi era rimasto a casa, e ancora attendeva un ritorno.