Sabato 18 giugno 2005, ore 17.30
presso la Biblioteca Centrale Villa Visconti d’Aragona, via Dante 6
Sesto San Giovanni (MI)
Sala “Spazio Contemporaneo”
Presentazione del libro:
Patrizia Deotto
Stanitsa Tèrskaja
L’illusione cosacca di una terra
(Verzegnis, ott 1944 – mag 1945)
Gaspari Editore-Udine 2005
Prefazione di Marcello Flores
A cura del Fogolâr Furlan di Sesto San Giovanni
Con il patrocinio di
Adriana Stroili ha curato l’apparato fotografico e il materiale Illustrativo; hanno collaborato Renato Saleri Lunazzi e Spartaco Iacobuzio.
Nell’estate del 1944 i partigiani delle Brigate Garibaldi e delle Brigate Osoppo, dopo aver concluso diverse azioni belliche con successo e aver completamente liberato da ogni presidio nemico un’estensione territoriale continua, proclamano la “Zona libera della Repubblica della Carnia e Prealpi”, destinata a durare più di quattro mesi, fino ai primi di novembre. Il territorio d’azione dell’Osoppo e della Garibaldi Friuli si estendeva tra i fiumi Livenza e Isonzo, tra la Mauria e le Alpi Giulie, comprendendo tutta la corrispondente zona pedemontana, oltre a tutta la Carnia eccetto Tolmezzo, occupata dai tedeschi. La presenza di un movimento partigiano così forte e massiccio (vi avevano aderito circa 2000 uomini) in un territorio come il Friuli Venezia Giulia considerato dai tedeschi di estrema rilevanza strategica in quanto da lì passava la seconda linea di rifornimento e di sgombero con il mondo germanico: la linea ferroviaria Villach-Udine che si snodava attraverso il valico di Coccau, costituiva una seria minaccia per l’afflusso in Italia delle truppe del Terzo Reich. I tedeschi cercarono di risolvere il problema ingrossando le file del loro esercito con nuove forze per condurre un’operazione quanto più fulminea possibile, indirizzata a liquidare definitivamente il movimento partigiano e a prendere il controllo completo della regione.
Fu in quell’occasione che si rivelò efficace una risoluzione decretata quasi un anno prima, il 10 novembre 1943, da Alfred Rosenberg, ministro dei Territori orientali occupati, e dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel, comandante supremo della Wermacht, con cui si prometteva ai cosacchi del Don, del Kuban e del Terek la restituzione della loro patria come futura ricompensa per l’aiuto prestato all’esercito tedesco durante la guerra, e si garantiva, qualora gli eventi bellici avessero reso temporaneamente impossibile il rientro in Ucraina o nel Caucaso, l’insediamento in una terra dove sarebbe stato possibile condurre un’esistenza autonoma nel pieno rispetto delle tradizioni.
L’illusione cosacca di recuperare l’indipendenza dei tempi passati svanì sotto i colpi dell’offensiva sovietica a Stalingrado, iniziata il 19 novembre del 1942. Alla fine di gennaio del 1943 l’Armata Rossa riportò la vittoria definitiva, costringendo l’esercito tedesco e chi li aveva fiancheggiati a iniziare la ritirata verso occidente. Lungo la strada si accodarono numerosi civili, intere famiglie con bambini che, caricate in fretta e furia le poche masserizie, affidarono a quell’esercito in fuga l’ultima fievole speranza di salvezza, alimentata nei mesi seguenti dalla promessa di un rifugio in una terra simile a quella che avevano lasciato.
Nell’estate del 1944 l’astratta promessa di una patria temporanea, solennemente ratificata dalla già ricordata risoluzione Rosenberg-Keitel, assunse i tratti concreti di un territorio geografico reale, la Carnia, prospettata dai tedeschi come “Kosakenland in Nord Italien”. Verso la fine di luglio del 1944 alla stazione della Carnia, il paese che segna il confine tra la regione omonima e il Friuli, cominciarono ad affluire i primi convogli di cosacchi e di caucasici che dopo lunghe peregrinazioni al seguito dei tedeschi in ritirata dal fronte orientale attraverso la Polonia, la Romania, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, l’Austria s’illudevano di aver raggiunto la “terra promessa”; ne sarebbero arrivati circa 40.000. Un numero considerevole se si pensa che la Carnia di allora contava 60.000 abitanti.
Sono questi gli eventi che fanno da sfondo agli episodi raccontati in questa cronaca. Verzegnis è un comune della Carnia che dall’ottobre del 1944 all’aprile del 1945 venne occupato dai cosacchi, reclutati dai nazisti per le operazioni di rastrellamento e di rappresaglia contro il movimento partigiano molto attivo nella regione. Numerosi paesi friulani subirono in quei mesi la stessa sorte, ma la storia di Verzegnis appare singolare per le situazioni anomale di cui è testimonianza. Il fatto più eclatante si verificò nel febbraio del 1945 quando il generale Pjotr Nikolaevi c Krasnòv giunse, scortato da ufficiali in uniforme da parata, nel piccolo centro rurale e si stabilì alla locanda “Stella d’oro” di Villa di Verzegnis dove rimase fino alla fine della guerra. Il generale Krasnòv, nato a Pietroburgo nel 1869, pluridecorato al valor militare, è anche noto come pubblicista, autore di articoli e saggi di argomento bellico, di memorie e di alcuni volumi tra cui il famoso libro Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa , pubblicato a Berlino tra il 1922 e il 1923. Nel 1918 era stato eletto Atamano del Grande Esercito del Don e alla guida della sua armata aveva combattuto i bolscevichi durante la guerra civile in Russia. da cui era emigrato nel 1920. Ora, nel 1945, insieme ai suoi fedelissimi aveva lasciato l’esilio berlinese per dar man forte ai tedeschi, suoi alleati fin dai tempi delle azioni belliche condotte nella primavera del 1918 contro l’Armata Rossa a Rostov sul Don e nel territorio circostante.
Un altro particolare interessante è la tipologia degli occupanti insediatisi a Verzegnis. A seguito della soldataglia cosacca che invase i paesi del Basso e dell’Alto Friuli, arrivarono numerosi civili, tra cui medici e artisti, e molte famiglie con bambini. Era un’umanità eterogenea, costretta dalle circostanze alla fuga, aliena per lo più da sentimenti ostili e animata da un’unica aspirazione: approdare in un luogo tranquillo per ricominciare una nuova vita. A Verzegnis il numero dei civili e delle famiglie era preponderante e questo contribuì col passare dei mesi a smorzare le tensioni, ad allentare la paura suscitata dalle imprevedibili reazioni degli occupanti, a contenerne l’arroganza e a rendere meno problematica la convivenza forzata, favorendo addirittura in alcuni casi rapporti discreti tra le famiglie cosacche e gli abitanti del paese.
Nel corso della narrazione si è fatto soltanto un breve cenno agli avvenimenti storici già indagati dagli addetti ai lavori, mentre si è riservato ampio spazio alla ricostruzione della vita quotidiana nelle quattro frazioni del Comune di Verzegnis (1800 abitanti), occupate nell’ottobre del 1944 da 1567 cosacchi con al seguito 465 cavalli, 58 mucche e 20 cammelli e ribattezzate Stanitsa (villaggio cosacco) Terskaja . Si è cercato di far rivivere le impressioni, i sentimenti, le difficoltà degli abitanti del Comune costretti a una lunga convivenza forzata con i cosacchi, alleati dei tedeschi e dei repubblichini, installatisi di prepotenza nelle case. In ogni abitazione c’era almeno una stanza occupata dai russi, così venivano genericamente chiamati gli occupanti, che preferivano condividere il loro alloggio con gli italiani, perché si sentivano più al sicuro, più protetti da eventuali incursioni partigiane.
Le conversazioni con chi ha vissuto in prima persona quegli eventi costituiscono la materia prima di questa cronaca suddivisa in 13 brevi capitoli che trattano aspetti diversi della vita quotidiana a Verzegnis durante l’occupazione. Alcuni capitoli riflettono l’impatto degli eventi bellici sul microcosmo del Comune e ricostruiscono il clima di paura, di sospetto reciproco e di tensione che da un momento all’altro poteva degenerare in atti violenti. Vengono ricomposti episodi da cui emergono i sistemi di controllo messi in atto dagli occupanti per timore degli attacchi partigiani: perquisizioni notturne, coprifuoco, posti di blocco e lasciapassare scritti in russo, obbligatori per gli spostamenti da una frazione all’altra del Comune o più semplicemente per raggiungere i campi e i prati circostanti.
Gli altri capitoli, che sono la maggioranza, prendono spunto da situazioni di vita quotidiana che coinvolgono per lo più la popolazione civile italiana e cosacca: gli attriti per i furti di foraggio, le piccole furbizie degli occupati e degli occupanti dettate dalla necessità di sopravvivere, le funzioni religiose e i canti corali di inaudita bellezza, gli spacci alimentari, il mondo quasi a parte delle donne e dei bambini, la solidarietà tra popolazione e medici russi, i concerti dei musicisti e le parate in cui abili cavallerizzi cosacchi si esibivano in spettacolari prodezze. Attraverso questi episodi si è cercato di far emergere gli elementi peculiari di una cultura diversa con cui gli abitanti di Verzegnis sono stati costretti inaspettatamente a confrontarsi e i tentativi da entrambe le parti di colmare le profonde differenze culturali, di rendersi disponibili, dopo un’iniziale diffidenza, alla scoperta reciproca delle diverse abitudini e modi di vivere.
L’ultimo capitolo è dedicato alla liberazione di Verzegnis e all’esodo dei cosacchi il 2 maggio del 1945. Le truppe cosacche convogliate a Tolmezzo cominciarono la ritirata verso il Passo di Monte Croce Carnico per raggiungere la Carinzia. Si unirono ai caucasici, che occupavano i paesi dell’Alta Carnia, e ai tedeschi in fuga. Gli scontri tra le formazioni partigiane con cui i cosacchi non avevano ratificato nessuna resa, nonostante le ripetute richieste in tal senso dei C.N.L. locali, e gli ex-occupanti continuarono lungo tutto il percorso che portava verso il confine austriaco, causando ancora diverse vittime da entrambe le parti.
Nella serata del 3 maggio, dopo aver superato faticosamente il Passo di Monte Croce Carnico, ancora innevato, i cosacchi arrivarono nella vallata della Drava e si accamparono nei pressi di Lienz, ignari della tragica sorte a cui erano destinati. Il generale Krasnòv aveva deciso di arrendersi agli inglesi che, gli sembrava, potessero garantire una certa comprensione nei confronti dei cosacchi nonostante fossero alleati dei nazisti. Questa congettura poggiava sul fatto che ai tempi della rivoluzione russa i britannici avevano sostenuto la causa degli Eserciti bianchi inviando forze di spedizione di cui aveva fatto parte l’ ufficiale di carriera Alexander, comandante supremo alleato nel Mediterraneo e responsabile della campagna d’Italia durante la seconda guerra mondiale. Ma il generale Krasnòv aveva fatto male i suoi conti. Gli inglesi erano interessati a far rientrare il più in fretta possibile i propri prigionieri che si trovavano nei territori dell’Europa dell’Est liberati dall’Armata rossa e a evitare che venissero utilizzati da Stalin a fini politici; per questo motivo decisero di assecondare le richieste inoltrate dal governo sovietico a Churchill il 10 febbraio 1945 a Yalta e cioè di rimpatriare tutti i prigionieri sovietici detenuti all’Ovest. Fu così che il 27 maggio gli inglesi tesero una trappola agli ufficiali cosacchi: li convocarono per il giorno successivo a un sedicente convegno con il Feldmaresciallo Alexander a Spittal. Gli ufficiali cosacchi indossarono per l’occasione le divise di gala, ma quando arrivarono sul luogo, vennero perquisiti, tradotti nel carcere della cittadina e la mattina del 29 maggio caricati a forza sui camion per essere consegnati ai sovietici. Alcuni tentarono di fuggire, ma furono uccisi, altri riuscirono a suicidarsi, mentre la maggior parte fu caricata sui carri bestiame e all’arrivo in Unione Sovietica fu spedita nei Gulag. I generali Pjotr Nikolaevi c Krassnòv, il colonnello Timofej Ivanovic Domanov, il tenente generale Andrei Grigorevi c Skuro, il generale tedesco comandante Helmut von Pannowitz e altri graduati vennero giustiziati a Mosca il 17 gennaio 1947.
Un destino ben più felice toccò invece alla maggior parte dei “russi” rimasti in territorio italiano. Il fatto che l’Italia si trovasse sotto il comando unificato americano e inglese rese le operazioni di rimpatrio più complesse e meno sbrigative. Gli americani erano più restii dei britannici a soddisfare le insistenti richieste del governo sovietico riguardo ai “prigionieri”, visto che i 10000 cosiddetti cittadini sovietici presenti sul territorio italiano nel luglio del 1945 erano ucraini, per la maggior parte cittadini polacchi, e dunque la loro restituzione ai sovietici sarebbe stata immotivata. Tra i beneficiari di questa situazione di incertezza ci fu anche una ventina di musicisti e artisti russi che non avevano seguito i cosacchi nell’esodo, ma erano rimasti nel Comune fino all’8 maggio, quando accompagnati da una lettera di raccomandazione del parroco furono raccolti dagli alleati a Tolmezzo poi convogliati a Udine e quindi a un campo profughi alla periferia di Roma, dove rimasero per due anni, fino al 1947. Alcuni riuscirono a raggiungere i parenti in Brasile, mantennero i contatti con la famiglia di Verzegnis da cui avevano vissuto e all’inizio degli anni Ottanta due di loro fecero un viaggio in Italia per rivedere le persone e visitare i luoghi dove avevano passato sei mesi intensi della loro esistenza.
Patrizia Deotto