Mostra

LA STORIA DIETRO LE IMMAGINI

Foto del campo di Mauthausen

 

In occasione dell’ottantesimo anniversario dalla liberazione dei campi di concentramento, ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi Nazisti) presenta a Milano la mostra dal titolo “LA STORIA DIETRO LE IMMAGINI Foto del campo di Mauthausen”.

Circa 190.000 donne e uomini di oltre 50 nazionalità diverse furono deportati dai nazisti nel campo di Mauthausen, che fu aperto nel 1938 e fu l’ultimo a essere liberato, il 5 maggio 1945. Oltre 90.000 vi trovarono la morte dopo inenarrabili tormenti. Di questi, oltre 4.500 erano italiani, la gran parte di loro deportati politici: parlare di Mauthausen significa anche parlare di Resistenza e della nascita di un progetto europeo che rinnega il fascismo per costruire un futuro di libertà e giustizia.

L’esposizione, promossa dal Museo-Memoriale di Mauthausen e resa unica dalla collaborazione tra numerosi enti e associazioni di superstiti che hanno messo a disposizione i loro archivi, riunisce un’impressionante documentazione fotografica del campo di concentramento di Mauthausen e dei suoi campi satellite.

Le immagini in mostra sono espressione di tre punti di vista assai diversi. Fino alla liberazione del campo possediamo solo materiale prodotto dalle SS, mentre dal 5 maggio 1945 in poi lo sguardo è quello dei liberatori americani e degli ex-prigionieri.

Le numerose immagini scattate dalle SS, che avevano approntato un apposito laboratorio all’interno del campo, furono in parte distrutte per non lasciare prove compromettenti, ma numerosi negativi si sono salvati grazie all’eroico atto di un gruppo di prigionieri spagnoli che misero a repentaglio la loro vita con il preciso scopo di far conoscere al mondo ciò che accadeva nei lager.

Le foto delle SS rispondevano a molteplici finalità: alcune servivano per documentare la gestione del campo e le abituali attività delle guardie SS, altre avevano una spiccata finalità propagandistica. Nei loro scatti non figura mai la brutale violenza e le fatiche disumane a cui erano sottoposti i detenuti, ma un’efficiente impresa economica fondata sulla disciplina e l’organizzazione: uno sguardo che non solo omette, ma svilisce ed è anche bugiardo (come nel caso delle fotografie che inscenano finti tentativi di suicidio per mascherare fredde esecuzioni).

Completamente opposto è ciò che osserviamo nelle foto realizzate dall’esercito americano al momento della liberazione e nelle settimane successive. A Mauthausen, Gusen e Ebensee i fotografi dell’US Signal Corps (il Servizio d’informazione americano) tentarono di esprimere attraverso le immagini lo shock provato in quei giorni. In tutti i campi si ripeterono le medesime visioni dell’orrore che accompagnarono la scoperta dei campi. Queste immagini sono divenute emblematiche delle atrocità naziste e dei crimini commessi nei campi di concentramento. Esse rispondevano anche allo scopo di documentare le aberrazioni di quell’ideologia e di fornire un importante contributo al fine di istruire i processi ai gerarchi nazisti.

Nel documentare, a volte, lo sguardo dei liberatori sembra quasi “invasivo”; alcune testimonianze di sopravvissuti esprimono una certa insofferenza per l’onnipresenza dell’obiettivo fotografico dei liberatori. Altri superstiti, al contrario, non si sottraggono, consapevoli che il mondo debba conoscere gli orrori dei campi. Interessante è d’altra parte notare come l’occhio dei fotografi sembri più discreto quando ritrae le donne, inquadrando i primi soccorsi e i primi gesti di un’umanità ritrovata.

Vi è poi il punto di vista degli ex prigionieri. Nei giorni successivi alla liberazione, soprattutto il gruppo di spagnoli che salvarono dalla distruzione i negativi trafugati alle SS, e in primis Francisco Boix, utilizzò le macchine fotografiche abbandonate dalle SS per realizzare numerose foto. I loro scatti mostrano la progressiva riconquista da parte dei sopravvissuti delle proprie identità individuali e collettive, dopo essere stati a lungo umiliati, isolati e ridotti a numeri di matricola.

L’accostamento delle tre prospettive fornisce un quadro ricco di spunti per capire la complessità dell’universo concentrazionario, ma anche il difficile ritorno dei sopravvissuti alla vita civile, dimostrando altresì la necessità di un approccio critico al racconto fotografico di un evento storico.