Il 27 gennaio in tutta Italia si celebrerà il Giorno della Memoria, in ricordo “dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Tre giorni prima, il 24, inizieranno alla Camera le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, e cioè del garante della Costituzione italiana.
Non mi sembra peregrino ricordare che la Costituzione italiana è dichiaratamente antifascista: non tanto e non solo perché essa contiene la famosa XII Disposizione transitoria e finale, che vieta “la ricostruzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista”. Quanto perché ogni singolo articolo della Costituzione, soprattutto nella parte in cui si dichiarano i principi fondamentali sui quali si regge la Repubblica, è scritto in modo trasparente in antitesi con la teoria e la prassi del fascismo.
Sarà utile riandare indietro nel tempo, ricostruire il contesto in cui si svolse il confronto tra le personalità che scrissero la Carta costituzionale. I padri costituenti, come qualcuno li chiama (ma c’erano anche 21 “madri”!), uscivano da vent’anni di dittatura e da 5 anni di guerra e di orrori provocati da quel regime. Molti avevano personalmente conosciuto il confino, la prigione, il campo di concentramento, e talvolta anche le torture. Molti erano stati partigiani (dei più diversi orientamenti ideali), avevano combattuto in prima persona, e avevano visto morire uno dopo l’altro al loro fianco amici e compagni. Mentre discutevano della Costituzione, dalla data della Liberazione e della fine della guerra era trascorso lo stesso tempo che separa noi oggi dal primo lockdown per la pandemia: era impossibile non averne un ricordo più che vivo.
I costituenti avevano ancora nelle orecchie l’eco dei discorsi del duce, e sulla pelle i segni della galera, dei campi di concentramento, della prigionia, della guerra, della fame, delle violenze, dei lutti. E scrissero un testo che fosse l’esatto contrario di tutto quello che era stato detto e praticato nel ventennio precedente.
La Patria. Mussolini faceva discendere l’idea di Patria e la legittimità delle ambizioni del fascismo dai fasti dell’impero romano e da teorie che oggi definiremmo sovraniste. I costituenti scrissero che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro. È il lavoro degli italiani a costituire la spina dorsale dell’Italia. La sovranità non spetta né a un re, né tantomeno a un duce, ma al popolo. E i limiti di questa sovranità li detta la stessa Costituzione (art 1).
Il razzismo. Nel 1938 Mussolini a Trieste urlò che “Poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”. Fu il discorso che aprì la strada di lì a poco alle leggi razziste antiebraiche. Ricordando bene quelle parole i costituenti scrissero che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di razza” (art 3).
La donna. Il fascismo relegò la donna a un ruolo secondario, come regina del focolare incaricata in sostanza di fare tanti figli per la patria e segnatamente per l’esercito. I costituenti sancirono la parità tra i sessi, e specificarono (art 37) che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (art 37) certamente ricordando quando nel 1932 il regime dimezzò i salari delle donne rispetto a quelli degli uomini.
La guerra. Il fascismo ha costantemente alimentato un vero e proprio culto della guerra: per diversi lustri Mussolini spronò la gioventù ad addestrarsi alle armi, per prepararsi a una guerra che avrebbe ridato all’Italia il ruolo che le spettava nel mondo. Il regime organizzò interminabili esercitazioni premilitari, dove con un moschetto di legno i balilla partivano all’attacco di un futuro nemico della patria. “La storia ci dice che la guerra è il fenomeno che accompagna lo sviluppo dell’umanità. Forse è il destino tragico che pesa su l’uomo. La guerra sta all’uomo, come la maternità alla donna” disse Benito Mussolini davanti al Parlamento, 26 maggio 1934. E infine fece entrare l’Italia in guerra il 10 giungo del 1940, portando il paese alla rovina definitiva.
Con ancora negli occhi quel conflitto e quelle rovine (che peraltro erano ancora ben visibili in ogni parte d’Italia nel 1947) i costituenti scrissero quelle parole così solenni: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art 11).
La dittatura. Il regime faceva valere la forza di un uomo solo al comando, il duce. E i costituenti se ne ricordarono, costruendo un sistema di pesi e contrappesi nel quale i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario godono ciascuno di una forte autonomia. Non i vertici di un partito, ma il suffragio universale determina gli orientamenti della politica nazionale
Le autonomie. Memori del centralismo esasperato del fascismo, i costituenti sancirono la tutela delle autonomie locali. (art 5)
Le minoranze. Il fascismo si era macchiato di autentici crimini in Alto Adige contro le popolazioni di lingua tedesca, e a nord-est contro le minoranze slovene e croate. Era vietato alle minoranze linguistiche parlare, pregare, studiare nella propria lingua, e molte famiglie furono addirittura costrette a italianizzare il proprio cognome (il grande architetto Pogatschnig divenne così l’architetto Pagano, per esempio). La Carta costituzionale tutela i diritti delle minoranze linguistiche (art 6) e sancisce che “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome” (art. 22)
La scuola. Se per il duce l’obiettivo degli studenti era quello di imparare a “Credere, obbedire, combattere”, e se le scuole avevano un unico testo scritto dal regime come base dello studio per tutta Italia, la costituzione stabilisce che “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento” (art 33).
La stampa. Lo stesso si potrebbe dire per la libertà di stampa. Le leggi eccezionali del 1926, riviste e perfezionate nel giugno 1931 stabilivano che era vietato “fabbricare, introdurre nel territorio dello Stato, acquistare, detenere, esportare scritti, disegni, immagini od altri oggetti di qualsiasi specie contrari agli ordinamenti politici, sociali od economici costituiti nello Stato o lesivi del prestigio dello Stato o dell’Autorità o offensivi del sentimento nazionale”. Molte testate furono costrette a chiudere, e per anni la velina del Minculpop ha dettato ogni sera alle redazioni il taglio degli articoli più importanti.
Abbattuto il regime, la Costituzione stabilisce (art 21) che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.”
I partiti. Idem per associazioni e partiti, sciolti d’autorità dal fascismo: oggi l’art 49 stabilisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
I sindacati. Mio padre, Carlo Venegoni, arrestato mentre cercava di riorganizzare la Confederazione Generale del Lavoro a Torino nel 1927, fu condannato per questo a 10 anni di prigione dal Tribunale Speciale (sentenza n. 118 del 1928). La Repubblica italiana dichiara al contrario che “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione” (art 39).
La libertà. È la libertà a fare da filo conduttore di tutto il testo della nostra Carta fondamentale. Anche qui, in contrasto con quanto rivendicò per il fascismo Benito Mussolini. Il quale, per fare solo un esempio, in un articolo sulla rivista Gerarchia del 1923 scrisse: “Si sappia dunque, una volta per tutte, che il Fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà”.
La pena di morte. Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, istituito con le leggi eccezionali del 1926, comminò 42 condanne a morte per motivi politici. Ben 31 di queste vennero eseguite. Forse è anche nel ricordo di queste vittime che si deliberò che nell’ordinamento della Repubblica “non è ammessa la pena di morte” (art 27)
Potrei andare avanti a lungo, citando uno dopo l’altro tutti gli articoli della nostra Costituzione. Ma una cosa è evidente: non c’è un solo articolo in quel documento fondamentale che Benito Mussolini avrebbe potuto condividere o approvare. Ogni parola in quel testo è scritta per segnare una cesura, in contrapposizione con l’ideologia e l’esperienza storica del fascismo, di cui l’Italia del dopoguerra si voleva liberare per sempre. Ed è per questo motivo che la nostra è una Costituzione dichiaratamente antifascista, e perché c’è una sostanziale incompatibilità tra chi manifesta una qualche simpatia per il fascismo, o anche solo non esprime nei suoi riguardi una radicale condanna, e chi pretende di rappresentare una istituzione repubblicana, cosa che richiede un giuramento di fedeltà alla Costituzione.
Di questo testo fondamentale il Presidente della Repubblica è il primo difensore: come si potrebbe eleggere a quella carica una personalità che non dia garanzia di fedeltà ai suoi principi? E come si potrebbe concepire che siano gli avversari della Costituzione a determinare coi loro voti il Presidente?
C’è un nesso tra queste valutazioni e il ricordo della scadenza del prossimo Giorno della memoria? Io dico di sì, perché la memoria del passato non ha senso se non ci aiuta a districarci nel presente, e se non ci offre solidi punti di ancoraggio per la nostra vita di oggi.
Del resto questo nesso inscindibile tra la Carta costituzionale e la memoria del fascismo e della guerra lo indicò già nel 1955 molto meglio di me nel suo famoso discorso ai giovani milanesi Piero Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, disse, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.”
Dario Venegoni
presidente dell’ANED