Giorno della Memoria
Conferenza sul tema “Il progetto politico del fascismo e il suo atteggiamento nei confronti degli oppositori” Milano, Casa della Cultura, 22 gennaio 2009
Prof. Mauro Canali, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Camerino
Uno storico spera sempre che parlando ai giovani avvenga quello che in genere chiamiamo il “reclutamento”, cioè l’auspicio di trasmettere ai giovani la passione per la storia, per questa disciplina così complessa e affascinante. Avete già avuto modo di appurare con una serie di tracce che ha lasciato l’intervento precedente di Eros Francescangeli, come su certi nodi storici ci possano essere interpretazioni diverse. Perché noi storici siamo una categoria molto litigiosa, litighiamo molto tra di noi, come ad esempio sul fascismo, sul quale hanno preso forma nei decenni trascorsi tutta una serie di interpretazioni, che sono venute confrontandosi nel tempo, e che fortunatamente adesso sembrano, almeno su alcuni punti fondamentali, convergere. Una certa la litigiosità è andata placandosi o quanto meno ha assunto toni meno aspri, mentre, come dicevo, si nota una certa concordanza nel valutare il regime stesso. Per molti anni si è addirittura discusso su che cosa fosse stato il fascismo, perché come già ha sottolineato Francescangeli, il fascismo subì nel corso degli anni del regime una serie di mutazioni apparenti e non apparenti, che ingannarono i primi studiosi di esso, nel senso che in qualche modo li disorientarono, al punto che si riscontrano negli studiosi coevi del fascismo, notevoli difficoltà a stabilire che cosa fosse in profondità il fenomeno fascista. Questo disorientamento noi lo continuiamo a cogliere nelle prime opere del post-fascismo scritte evidentemente di chi aveva sperimentato il fascismo e che quindi sono ispirate essenzialmente dalla necessità morale di indicare la collocazione dello storico di fronte al fascismo. Le generazioni successive degli storici hanno potuto affrontare la questione della natura del fascismo in modo più scientifico. E’ stata soprattutto l’apertura degli archivi a dare slancio a questa generazione di storici, e debbo ringraziare l’avv. Maris della lettura del brano di David Bidussa, che rappresenta una riflessione importantissima dei rapporti tra testimonianza diretta e ricostruzione storica e tra quest’ultima e la documentazione. Essa fa capire come la testimonianza sia necessaria alla ricerca storica; ma la riflessione successiva, quella dello storico, è non solo altrettanto importante ma serve ad andare oltre il vissuto e a capire in profondità le radici del fenomeno. A mio avviso si può comprendere complessivamente un fenomeno politico quando si sono compresi i motivi profondi della sua genesi e della sua primigenia affermazione. Così non fu per molti studiosi contemporanei al fascismo, che non colsero le ragioni profonde che contribuirono all’affermazione del fascismo perché non capirono a quali esigenze seppe trovare risposte il fascismo delle origini. In sostanza non capirono le debolezze del regime liberale. Colsero aspetti marginali del fascismo ma non altri più profondi, e quindi non seppero dare risposte convincenti sulla natura del fenomeno politico.
Il fascismo fu un fenomeno complesso, tant’è che attorno alla sua natura e alle ragioni delle sue origini si discute ancora dopo tanti anni dalla sua fine rovinosa. Io credo che nella storia del ‘900 non ci siano altri periodi così attentamente studiati quanto quello fascista. Se andiamo a esaminare gli studi sul fascismo di Renzo De Felice, egli ci dice che già durante il fascismo furono tre tentativi interpretativi di esso che si contesero il campo politico-storiografico. Un dibattito tra sordi che fece perciò fatica a trovare punti d’incontro. Il grande studioso del fascismo cita l’interpretazione crociana, che paragona l’avvento del fascismo a una specie di irruzione di barbari nella storia italiana. Per Croce, i fascisti furono per l’Italia quello che gli Hixsos furono per l’Antico Egitto. Una popolazione barbara che sopraggiunge all’improvviso non si sa bene da dove, s’impossessa di un grande impero, di un potere come quello egiziano, domina incontrastata per un certo periodo poi si ritrae senza lasciare tracce significative. Per Croce i fascisti erano gli Hixsos. Perché questa interpretazione da parte di Croce? Perché egli in tal modo cercava di assolvere la classe politica liberale, prefascista, sostenendo la sua non responsabilità nell’avvento del fascismo stesso, e quindi in tal modo indirettamente suggeriva alla classe politica del secondo dopoguerra di riprendere semplicemente il discorso lasciato interrotto dalla classe politica liberale e giolittiana. Ciò ci induce a una prima riflessione: quando si studia la storia, gli interessi presenti condizionano inevitabilmente i giudizi sui fenomeni del passato. Croce stesso avverte che la storia è sempre storia contemporanea, perché lo storico vive il proprio tempo, e quindi, in qualche modo, egli tende a giudicare il passato con la mente rivolta, consciamente o inconsciamente, ai problemi del presente.
Salvemini, e tutto il gruppo degli eredi di Gobetti, va a ricercare i germi del fascismo molto indietro nella storia d’Italia. Sono i grandi problemi irrisolti lasciati dietro di sé dal lungo processo di costruzione della nazione italiana a determinare quella ‘malattia’ che fu il fascismo.
Vi è poi l’interpretazione comunista, marxista che trova la risposta alla genesi del fascismo nella reazione borghese ai timori di una imminente, inevitabile e vittoriosa rivoluzione socialista. Anche Francescangeli ha accennato a quest’ultima interpretazione, perché in effetti è presente un elemento classista nel programma fascista successivo.
Quindi, già l’esistenza di diverse interpretazioni fa capire come l’analisi del fenomeno fascista si presentasse sin dall’inizio problematica. Tuttavia da qualche decennio si è aperta una nuova fase dello studio del fascismo, fondata sulla possibilità da parte degli studiosi di accedere a nuove fonti documentali. L’apertura degli archivi fascisti, avvenuta negli anni ’60, ha consentito agli storici di accedere ai documenti prodotti dal regime fascista stesso. L’Archivio centrale dello Stato riunisce un po’ tutte le carte, diciamo, del periodo del regime fascista. Ciò ha consentito un approccio più scientifico, più rigoroso al fascismo. E qualche punto fermo è stato messo. Si è cominciato ad andare, soprattutto, oltre i miti dell’antifascismo e i miti alimentati dallo stesso fascismo per spiegare se stesso. Questo approccio ai documenti ha consentito di azzardare una interpretazione che si avvicina di più alle caratteristiche di una disciplina scientifica; un approccio documentale, che altro non è poi che un richiamo indiretto alla vecchia lezione di von Ranke: i documenti e la loro analisi rigorosa al centro della riflessione storiografica. Questo richiamo al grande storico e filologo tedesco è opportuno, e ritengo che sia necessario ricorrere ancora alla sua lezione affinché la storiografia respinga le ricorrenti e mai del tutto sconfitte tentazioni di prestarsi alle esigenze della politica, tornare ad essere un’ancella della politica.
Ecco, forte di queste considerazioni vorrei tornare all’analisi del regime fascista. Perché i documenti dicono inequivocabilmente questo: il passaggio dalla fase legalitaria del fascismo a quella del fascismo-regime è un passaggio che avviene per gradi; Mussolini non si sveglia improvvisamente un bel mattino dittatore d’Italia. Al contrario, egli arriva a dominare il paese attraverso un percorso in cui la sua abilità di dare risposte al momento si intreccia, dobbiamo dire, con gli errori dei suoi avversari. Egli riesce con grande abilità a superare una serie di problemi di carattere internazionale, e a mediare una serie di conflitti interni al paese e allo stesso partito fascista. Insomma egli riesce a trasmettere alle masse, ai ceti medi, la convinzione di essere la persona giusta per governare i grandi problemi del proprio tempo. Insomma la violenza adoperata dal fascismo non spiega in tutto e per tutto, – come al contrario alcuni studiosi cercano ancora di affermare – l’ascesa al potere di Mussolini. A coloro che ancora sostengono che Mussolini non avesse lo spessore dello statista, rispondo francamente che questa è un’affermazione faziosa che non risponde alla verità storica. Mussolini è stato uno statista, un abile animale politico, con grande fiuto e capacità di valutare qualità e limiti degli uomini della sua generazione. Egli conosceva bene quegli uomini che gli si opponevano, gli ex-socialisti, conosceva bene le debolezze del massimalismo socialista, perché veniva da quel mondo, e questa conoscenza la seppe mettere a frutto. Mussolini conosceva molto bene le debolezze di questi uomini, l’assoluta impreparazione del massimalismo socialista a guidare coerentemente i processi rivoluzionari del dopoguerra, e quindi non può stupire che minimizzerà sempre i pericoli che vengono dall’antifascismo. Francescangeli accennava al fatto della rivoluzione sempre agitata come spauracchio ma mai tentata come una delle debolezze del massimalismo socialista. E’ vero: la minaccia insistente del ricorso alla rivoluzione ebbe come unico risultato di spaventare quelle che avrebbero dovuto essere le vittime della rivoluzione, che quindi si attrezzarono, reagirono e trovarono in Mussolini l’uomo che seppe dare un indirizzo politico alle loro paure. Ma questi processi, attraverso i quali si giunge al regime, sono processi che, se è vero che avvengono diciamo, scalino dopo scalino, risultano comunque circoscritti a un arco di tempo molto breve, che va dal 1924 al ‘26, dal delitto Matteotti alle cosiddette leggi “fascistissime”. Il delitto Matteotti è uno spartiacque della storia italiana e di quella del fascismo; esso contribuì a svelare la natura profondamente totalitaria del fascismo, la sua vocazione a volere il potere assoluto anche attraverso il ricorso al crimine.
Perché il delitto Matteotti è importante? Matteotti era un grande italiano, un grande democratico, un socialriformista e un antifascista coerente. Un antifascista che non voleva accordi di nessun genere col fascismo e giudicava il fascismo una forza illegale, violenta e tendente alla liquidazione violenta degli oppositori. Come vedete, Matteotti aveva intuito prima di tanti altri la natura totalitaria del fascismo. Egli capisce dove intende dirigersi il fascismo e lo identifica come un movimento a tendenze totalitarie. Per cui, la sua azione politica s’ispira a una regola molto semplice: “Nessuno sconto al governo Mussolini, nessun accordo col fascismo”. Mussolini sa perfettamente che il vero nemico in quel momento, il vero capo dell’opposizione nel ’24 è Matteotti, il quale dal parlamento attacca Mussolini, attacca il fascismo, impostando la sua azione su un terreno coerentemente e rigorosamente antifascista. L’assassinio di Matteotti è la cronaca di una morte annunciata. Per ucciderlo Mussolini fa ricorso a un gruppetto di fedelissimi, tutti ex Arditi, che avevano fatto la guerra, dei fegatacci, gente che aveva un rapporto diretto con la violenza.
Su questo aspetto, spenderei anch’ io due parole perché la guerra fu un fatto devastante nella coscienza dei giovani che la fecero. Dalla guerra, le giovani generazioni uscirono con un’idea della vita e della morte profondamente cambiate. Noi abbiamo delle descrizioni incredibili, terribili della guerra di trincea. Purtroppo la storiografia italiana ha indagato poco in questa direzione, al contrario, ad esempio, della storiografia inglese, che ci ha dato al riguardo dei piccoli ‘classici’. Ricordo tra i molti lavori, quelli di Fussell e di Leed, dove al centro delle analisi vi è la psicologia del reduce. Adesso c’è questo film “Un matrimonio all’inglese”, dove uno dei personaggi fa capire quanto ancora, a distanza di 10 anni, la propria psiche sia turbata dall’esperienza della guerra. Al riguardo, ricordo anche un bellissimo racconto di Hemingway, “Il reduce”, e più in generale quella che Gertrude Stein definirà la “generazione perduta”: questi reduci che tornano a casa e non hanno un interlocutore, pensano di non possono parlare con chi non ha avuto la loro terribile esperienza. E in effetti, molte associazioni combattentistiche nascono proprio sull’onda di questa reazione emotiva. Perché è un’esperienza terribile, la trincea, la vita di trincea. Immaginate quindi il ritorno a casa dopo questa esperienza, soprattutto quando si è stati spinti a quest’esperienza con le promesse di trovare una realtà del tutto cambiata, diversa. I reduci tornano e si rendono conto che la realtà non è affatto cambiata, da qui la politicizzazione di questi reduci. Da qui anche la sirena del fascismo, del movimento dei fasci, di Mussolini che afferma esplicitamente di voler “dare voce ai reduci”. Quindi, c’è questa, come dire, seduzione, diciamo, da parte del fascismo verso il mondo dei reduci. E c’è l’errore enorme del movimento socialista che tenderà a criminalizzare chi ha voluto la guerra e a indicare negli ufficiali i maggiori responsabili della carneficina. I figli della piccola e media borghesia che tornano dalla guerra vengono indicati come dei criminali e spesso riescono a evitare a fatica il linciaggio pubblico. Solo Mussolini da ospitalità nel suo movimento a questa piccola borghesia frastornata e vilipesa. Non fa fatica quindi il futuro dittatore d’Italia a indicare nei socialisti il ‘nemico interno’, da liquidare, spazzare via come il soldato aveva fatto in trincea con gli austriaci. Ecco: il socialista è il nuovo nemico da eliminare. Il radicalismo totalitario che si insedia nello squadrismo fascista delle origini trae alimento dal clima di guerra civile che viene insediandosi nel dopoguerra anche per responsabilità del movimento socialista. Quindi, i germi del totalitarismo sono già ravvisabili nella cultura politica e nella prassi del primo squadrismo fascista. Mussolini, per tutti i vent’anni del suo regime, batterà sempre su questo tasto, cioè che il regime fascista è stato l’erede di Vittorio Veneto, è stato il governo della prima guerra mondiale, è stato il governo che ha dato voce a chi ha fatto la guerra, che ha liquidato chi aveva sconfessato la guerra, che ha impedito che andasse al potere il partito socialista, cioè “il nemico interno”.
Sui caratteri primigeni del fascismo, gli storici si sono accapigliati, perché nella discussione entra in gioco appunto una categoria, il totalitarismo, non da tutti gli storici accolta favorevolmente. Che cos’è il totalitarismo? Si può essere d’accordo con alcune riflessioni di Francescangeli sulle diverse fasi del fascismo sino a poter talvolta azzardare il termine ‘fascismi’, tuttavia ritengo che per comprendere in profondità la natura fondante del fascismo occorre rimanere ancorati alla categoria del totalitarismo. Il nazismo, il fascismo, e il regime staliniano in URSS, sono regimi totalitari in quanto sono regimi a partito unico con la sovrapposizione di quest’ultimo allo Stato, cioè è il partito unico che si fa Stato. Quindi, io definirei totalitarista, non fascista ma totalitarista, ad esempio il regime di Saddam Hussein. C’è un partito unico, il Baat, che prende il potere, si sovrappone allo Stato, e tutta la struttura dello stato iracheno viene alimentata da funzionari selezionati, forniti dall’apparato del partito unico al potere. Per questo possiamo definire il regime di Saddam Hussein un regime totalitario. Allora perché ci si accapiglia quando si va a definire il totalitarismo fascista? Perché c’è chi dice che bisogna differenziare il fascismo dal nazismo e dallo stalinismo, i quali, secondo questi storici, sarebbero stati forme di totalitarismo perfetto, mentre il totalitarismo fascista sarebbe stato imperfetto, perché non godette del potere assoluto, ma lo dovette condividere con altri centri di potere, cioè la monarchia sabauda e il Vaticano. Secondo questa interpretazione il fascismo non avrebbe avuto in sé la vocazione primigenia al totalitarismo, ma avrebbe sostanzialmente sviluppato la sua spinta al potere solo navigando a vista, cioè non sarebbe stato sin dalle sue origini, e nemmeno in seguito, un movimento programmaticamente totalitario, ma si sarebbe acconciato a fornire risposte ai problemi che a mano a mano la situazione poneva ad esso. La mediazione da esso compiuta con la monarchia e con il Vaticano proverebbe questo. Un regime autenticamente totalitario non sarebbe giunto alla mediazione con altre forze morali e istituzionali, come fecero lo stalinismo e il nazismo. Da qui l’anomalia fascista, la sua imperfezione dal punto di vista del totalitarismo.
Il dibattito si è sviluppato sostanzialmente tra Emilio Gentile e alcuni storici, tra i quali vi è Giovanni Sabatucci. Dico subito che le posizioni di quest’ultimo non mi convincono, a me appare più convincente l’interpretazione di Emilio Gentile che definisce totalitario il regime fascista e giunge a considerare addirittura un nonsenso dal punto di vista storiografico la necessità di aggiungere un aggettivo, cioè imperfetto, alla categoria del totalitarismo. Gentile giustamente osserva che aggiungere un aggettivo al totalitarismo non è, diciamo, fruttuoso per la ricerca storica. Che senso ha dire di una democrazia che essa è perfetta o imperfetta. Noi sappiamo benissimo che cosa sia un regime democratico e che cosa sia un regime illiberale. Aggiunge Emilio Gentile: “Sì, il regime fascista certamente non ebbe il tempo di svilupparsi pienamente in un regime compiutamente totalitario come accadde per il nazismo, ma la sua spinta sin dalle origini, la sua forte pulsione politica, fu quella d’impadronirsi del potere assoluto, di sbarazzarsi di qualsiasi ostacolo avesse incontrato nella sua marcia verso il monopolio del potere.” E’ la storia diversa dei tre paesi, dove si impose un regime totalitario, a dettare le caratteristiche e le modalità con cui si svilupparono i tre regimi. Ma la pulsione e il progetto politico che li ispirò fu lo stesso: regime a partito unico, attivizzazione delle masse e, molto probabilmente, se ne avesse avuto il tempo, il fascismo si sarebbe liberato alla fine e in qualche modo sia della monarchia e sia del Vaticano. E’ vero che i Patti lateranensi del ’29 rappresentarono un vulnus per il totalitarismo fascista, costretto a concedere una certa autonomia all’educazione cattolica, ad accettare che ci fosse a latere dell’educazione data dalle scuole statali, quindi a latere dell’educazione data dal regime, un’organizzazione come l’Azione cattolica che poteva dare ai giovani che la frequentavano una educazione fondata sui valori e i principi della religione cattolica. Cosa comportò questo? Che, ad esempio, tutta la generazione dei cattolici che in seguito partecipò alla Resistenza si formò nelle organizzazioni dell’Azione cattolica. Questo significò una cosa importantissima, che chi voleva sfuggire all’educazione totalitaria fornita dalla scuola pubblica aveva la possibilità di frequentare l’Azione cattolica, eludere quelli che erano i valori totalitari di cui il regime aveva impregnato la scuola pubblica, dove la storia era tornata effettivamente ad essere l’ancella della politica. Per questo i Patti lateranensi sono importanti. Il Vaticano riesce a conservare attraverso l’accordo col regime una certa autonomia. L’autonomia nei matrimoni, ad esempio, che sarà uno dei motivi che porrà il Vaticano in conflitto col regime, quando il regime promulgherà le leggi antisemitiche; sarà, come dire, una sorta di appiglio del Papa per criticare il regime fascista. Le gerarchie ecclesiastiche obietteranno infatti che le leggi antisemitiche, con la proibizione dei matrimoni misti, erano una violazione ai Patti Lateranensi che attribuivano alla Chiesa la completa autorità in materia di matrimoni. Per cui, attraverso questo escamotage, la Chiesa finiva per manifestare il proprio cauto dissenso per le leggi razziali. Anche se con gli accordi Lateranensi il regime fascista ritenne più utile per sé, per la sua popolarità, giungere a un accordo con la Chiesa, questo non volle dire che esso rinunciava alla sua marcia verso la costruzione di un regime autenticamente totalitario, poiché fece intendere subito che esso dava una interpretazione limitativa agli accordi, un significato di accordo opportunistico, temporaneo. Basti ricordare le devastazioni delle sedi dell’Azione Cattolica a cui si abbandonò lo squadrismo fascista nel 1931, solo perché si sospettò che l’organizzazione cattolica stava andando oltre le competenze che i Patti le attribuivano.
Riguardo alla monarchia è ormai un dato accertato l’insofferenza di Mussolini verso di essa, i suoi ricorrenti propositi di liberarsene al momento opportuno. Quindi, diciamo che effettivamente non ha senso ornare dell’aggettivo “imperfetto” il carattere totalitaristico del regime fascista. Ha torto Sabatucci, quando poi su questo termine ci costruisce addirittura una categoria storiografica.
Quindi, in questo voglio essere chiaro, io sono per definire il regime fascista un regime totalitario, perfetto o imperfetto non mi interessa, è un regime totalitario perché regime del partito unico che ha liquidato qualsiasi forma di opposizione, impadronendosi di tutti i mezzi di comunicazione. Quest’ultima considerazione ci porta al cuore di un altro elemento che caratterizza un regime totalitario moderno: l’attivismo, e quindi il consenso delle masse, perché se non c’è l’adesione delle masse non c’è regime totalitario moderno. Infatti, il fascismo non è stato un regime meramente poliziesco, è stato anche questo, ma è innegabile che esso abbia goduto, in un periodo ancorché ristretto dei suoi vent’anni di vita, di un diffuso consenso popolare. E al riguardo occorre sottolineare appunto il ruolo svolto dai media, ricordare che tutti i mezzi di comunicazione erano in mano al regime. La realtà era raccontata, interpretata, dai mezzi di comunicazione controllati dal partito unico. Allora, occorre esaminare il momento in cui questo regime prende forma, cioè la promulgazione delle leggi fascistissime, e il successivo edificio totalitario del ‘codice Rocco’.
Perché, a partire dal delitto Matteotti, è più facile riconoscere, dietro la maschera del ‘legalismo’, il volto totalitario del fascismo? Perché con il delitto Matteotti, un regime liberale, un governo liberale avrebbe dato le dimissioni di fronte alla sollevazione popolare, all’indignazione della massa della popolazione per questo delitto efferato. Mussolini non lo farà, anzi sfiderà l’opinione pubblica dichiarando di voler “puntare i piedi”, di “resistere”. Il periodo che va dal giugno del ’24, assassinio Matteotti, al dicembre del ’24 è il periodo più debole del governo Mussolini. Mussolini dirà poi: ”Se ci fosse stato un pazzo qualsiasi che fosse venuto con una pistola a Palazzo Chigi a spararmi, non ci sarebbe stata una persona a impedirglielo”, cioè Mussolini è isolato. E qui veniamo a un altro discorso, le opposizioni, il ruolo delle opposizioni. Le opposizioni sono divise, le opposizioni proprio perché non sanno, non capiscono il fenomeno fascista, non hanno strumenti di reazione, non capiscono come fronteggiarlo. E quindi che cosa fanno? Aspettano l’intervento del re. Se interviene il re, il re dovrebbe dimissionare Mussolini. Ma il re si guarda bene dal fare questo, perché il re ha paura dei salti nel buio, cioè ha paura che dimissionando Mussolini la piazza si impadronisca del potere e quindi tergiversa, aspetta e Mussolini, che è un abile politico, approfitta di questa esitazione della monarchia per recuperare il terreno perduto. Ma non si ferma qui. Capisce che bisogna evitare che crisi del genere si ripetano. E quindi, accantona qualsiasi esitazione rendendo manifesta la vera natura del movimento fascista. Dal suo discorso del 3 gennaio del ’25, gli storici fanno partire la costruzione del regime totalitario. Un discorso con il quale Mussolini si assume la responsabilità di tutto quello che è avvenuto prima (quindi anche del delitto Matteotti), annunciando mutamenti radicali al suo governo. E in effetti prenderà una serie di provvedimenti: più potere ai prefetti, limitazione alla stampa, ampia libertà di manovra allo squadrismo rigenerato, una situazione che si evolverà per tutto il ’25 e per parte del ’26, per culminare nel novembre del ’26, nella emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime”.
Le leggi fascistissime rappresentano il primo fondamentale tassello della costruzione del regime totalitario fascista. In cosa consistono queste leggi? Queste leggi reintroducono la pena di morte, che era stata abolita dal Codice Zanardelli, per chi attenta alla vita del capo del governo, quindi alla sua, per chi attenta alla vita del re e per chi attenta contro lo Stato fascista. Il termine è talmente poco ben definito che, in seguito, se ne potrà fare un uso abbastanza arbitrario. Finiranno davanti al plotone di esecuzione anche coloro che, come gli anarchici Schirru e Sbardellotto, avevano avuto l’intenzione di attentare alla vita di Mussolini. Le ‘leggi fascistissime’ istituiscono il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, sciogliendo nel contempo tutti i partiti, con un escamotage che è tutto mussoliniano. Non si affermerà esplicitamente che tutti i partiti sono illegali, ma, prendendo a pretesto la massoneria, si vieteranno le associazioni segrete, cioè quelle associazioni che non rendano note al governo le liste dei propri iscritti. A questo punto, diventa inevitabile per i partiti l’autoscioglimento. Da quel momento ci si avvia verso il regime a partito unico. Se vogliono far sopravvivere un’opposizione al fascismo, i leader dei partiti antifascisti si vedono costretti a emigrare all’estero; almeno quelli che vi riescono, perché ad esempio, tutto il gruppo dirigente comunista viene arrestato: Gramsci, Terracini, ed altri, ed esclusione di Togliatti, che sfugge all’arresto solo perché si trovava in quel momento casualmente all’estero. Il Tribunale Speciale comincia a funzionare a pieno ritmo e sono secoli di galera per gli oppositori. Vi è un altro strumento repressivo la cui funzione viene rinnovata dalle ‘leggi fascistissime’ ed è il confino politico. Chi subiva il confino politico veniva costretto per un certo numero di anni a vivere coattivamente in una località remote del nostro paese, lontano dalla famiglia, dove non poteva avere determinati contatti sociali, del tutto isolato e in contatto solamente con altri confinati. Prima facevamo riferimento a Primo Levi, parliamo di un altro Levi, molto importante anche lui, Carlo Levi, che ha scritto questo bellissimo libro che vi inviterei a leggere, “Cristo si è fermato a Eboli”, in cui racconta la sua permanenza al confino politico in un paesino della Lucania. Perché il confino politico è forse la sanzione più subdola e infame del nuovo corso totalitario del regime fascista? Perché il confino politico era una sanzione amministrativa, essa veniva comminata non a fronte di un reato, ma solo se una commissione provinciale per il confino riteneva pericoloso il futuro confinato. Insomma: poiché ti considero pericoloso ti costringo a vivere per cinque anni a Longobucco, a Ustica, a Ponza, che non erano allora, come oggi qualcuno ha cercato di dire, località di villeggiatura. E quindi senza reato si mandava al confino, si strappava un padre di famiglia, una persona che aveva le radici sociali e famigliari nella propria città, nel proprio paese, lo si strappava per cinque anni e lo si spediva in una località remota, a centinaia di chilometri dalla propria casa, con la possibilità, se non si fosse comportato bene, del raddoppio della pena. Ma non solo. Il confino veniva dato anche a quelli che avevano finito di scontare gli anni di galera comminati loro dal Tribunale Speciale. Spesso infatti quelli che avevano già scontato la pena, magari dieci, dodici anni di galera (il caso di Pertini, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, per fare solo alcuni esempi), e avrebbero avuto diritto alla libertà, poiché li si continuava a ritenere pericolosi, non venivano lasciati liberi ma li si assegnava al confino politico. Quindi, per molti, il confino fu il proseguimento della galera. Sarà così per Terracini, uno dei leader del partito comunista, che venne arrestato nel ’26 e tornò praticamente libero nel ’43, alla caduta del fascismo.
Ora, è il caso di affrontare la questione della continuità. Ma allora se il fascismo, questa mostruosità giuridica, morale e istituzionale, nasce così all’improvviso, allora è vero quello che dice Croce, che i fascisti furono come gli Hixsos, cioè, barbari accampati in territorio nemico, non eravamo noi italiani, non era il popolo italiano che aveva accettato il fascismo, ma si era subita una violenza da parte di alieni, estranei alla cultura e alla storia italiane. Non è naturalmente andata così. Poiché se è vero che vi sono nel fascismo alcuni elementi di continuità col regime liberale, – tanto per fare un esempio, il confino politico, già c’era con Giolitti ma era chiamato “domicilio coatto” però veniva adoperato poco, indubbiamente. Il regime fascista, per la maggiore ampiezza con cui fa ricorso ad esso, finisce per fargli assumere connotati qualitativamente diversi – è altresì vero che il regime fascista presenta molti connotati fondamentali nuovi e inediti rispetto alla precedente nostra storia politica e istituzionale. I fascisti non furono perciò gli Hixsos, ma furono cittadini italiani, i nostri nonni, i nostri avi, giovani come siete voi oggi, che credettero che il fascismo fosse la risposta giusta alla situazione difficile che si trovava ad affrontare il nostro paese all’indomani di una guerra lunga e devastante, che riproponeva alla sua fine molti dei problemi che aveva promesso di risolvere ma che invece si ritrovavano tali e quali a come si erano lasciati agli inizi del conflitto, anzi forse aggravati dalle inevitabili conseguenze del dopoguerra.
E allora per comprendere le ragioni profonde dell’adesione di molti italiani al fascismo, occorre esaminare le debolezze del regime liberale. Non c’è dubbio che le istituzioni liberali in Italia fossero estremamente deboli. Non siamo in presenza delle democrazie occidentali inglese e francese, con una vecchia tradizione democratica alle spalle. In Italia, il regime liberale si presenta molto non concluso. E’ un regime che ha introdotto da poco il suffragio universale maschile, dove, per di più, i due partiti di massa, cioè il partito socialista e il partito popolare, per loro tradizione sono irriducibilmente ostili al regime liberale. Il partito socialista, dominato dalla frazione massimalista, perché vuole abbattere il regime liberale, instaurando una sorta di regime socialista, che, prima della Rivoluzione d’ottobre in Russia, non si sapeva neppure bene che cosa fosse. Si parlava infatti di una società nuova, più giusta, ma non si era andati molto oltre queste affermazioni di principio. Il partito popolare che nasce nel ’19, è altrettanto ostile perché in qualche modo, raccoglie il consenso di una popolazione cattolica ancora sotto l’influsso del non expedit vaticano, cioè l’ingiunzione a non partecipare alla vita politica di un paese dominato da una classe dirigente scomunicata dal Papa in quanto si era resa colpevole, con i processi risorgimentali, dell’abbattimento del potere temporale del Papa. Quindi, la classe politica liberale si trova contro proprio i due movimenti che si stanno organizzando in modo moderno, facendo assumere alla loro opposizione i caratteri di una opposizione popolare e di massa. Così il regime liberale si presenta all’indomani della guerra debolissimo. Non si spiegherebbe altrimenti come la cosiddetta ‘marcia su Roma’, che è un fatto effettivamente più folkloristico che militarmente efficace, possa aver avuto successo.
Aggiungerei inoltre un altro elemento di riflessione, che riguarda gli effetti devastanti del cosiddetto ‘biennio rosso’, cioè gli anni dal 1919 al 1921. Il ‘biennio rosso’ è un fenomeno che spaventa la borghesia ed è un fenomeno dai riflessi estremamente complessi, da analizzare bene, perché io ritengo che esso abbia contribuito non poco al rafforzamento e al successo del movimento fascista. Perché ‘biennio rosso’ vuol dire anche e soprattutto il suo culmine, cioè l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Fino ad allora il movimento fascista era stato un movimento insignificante, di cui oggi non avremmo nemmeno parlato, né sarebbe stato oggetto di una seppur parziale analisi storica. Ma esso prende corpo, si rafforza e cresce, dopo l’occupazione delle fabbriche del settembre del ’20, che Spriano, un grande storico di estrazione marxista, ha definito “la grande paura del 1920”. Nel settembre del ’20 la frazione comunista di sinistra del partito socialista (ancora non è nato il partito comunista) che si raccoglie attorno al giornale L’Ordine Nuovo, a Torino, e al gruppo napoletano di Bordiga, dà inizio all’occupazione delle fabbriche. Con ciò, il ‘biennio rosso, che stava ormai esaurendo la propria carica eversiva, ha un colpo di coda, provocando un picco altissimo di tensione sociale e politica soprattutto in quell’area di importanza strategica che era il triangolo industriale. Il contraccolpo è la diffusione nei ceti industriali di uno stato di incertezza e di paura che si fosse effettivamente alla vigilia di terribili sommovimenti rivoluzionari. Oggi sappiamo che erano paure infondate, ma allora, se vediamo la situazione con gli occhi dei protagonisti coevi non possiamo non considerare attivi nei ceti medi questi sentimenti. Chi poteva infatti rassicurare gli industriali che quel colpo, quella rivolta, non fosse il preludio a quello che era da poco accaduto in Russia? Soprattutto quando le parole d’ordine che circolavano nella classe operaia erano proprie quelle di voler “fare come era stato fatto in Russia”. Quindi una paura giustificata quella degli industriali, mentre la loro risposta appare filiazione delle debolezze del ceto dirigente liberale. Perché la risposta fu il ricorso alla violenza del fascismo. Noi infatti possiamo concludere, esaminando la documentazione conservata all’Archivio centrale dello Stato, in particolare il carteggio tra i fasci locali e il fascio centrale di quel periodo, che l’occupazione delle fabbriche provoca un mutamento profondo dello scenario politico. Infatti se fino ad allora i fasci avevano vivacchiato, anche finanziariamente, da allora comincia ad affluire denaro nelle loro casse. Se fino al settembre 1920, i pochi fasci locali che chiedevano armi e denaro al Comitato Centrale milanese si sentivano invariabilmente rispondere: “Dovete arrangiarvi da soli”, dal settembre del ’20 cambia la musica; prendono a circolare visibilmente soldi e armi, si rafforzano le squadre fasciste e non a caso, da lì a un mese, due mesi, ci saranno le prime grandi spedizioni punitive fasciste contro i municipi ‘rossi’ di Ferrara e Bologna, che verranno assaltati e devastati. Quindi, ecco, ci sono delle responsabilità, indubbiamente grosse, del ceto dirigente liberale, ma c’è anche una responsabilità dell’opposizione, c’è anche una responsabilità relativa a come l’opposizione fece opposizione.
Voglio chiudere con una provocazione, e cioè ritengo molto discutibile la posizione neutralista assunta dal partito socialista italiano rispetto all’entrata in guerra dell’Italia. Una posizione neutralista che si distingue da quella di tutti i partiti socialisti delle grandi nazioni europee, che al contrario accettano il fatto-guerra e si schierano con i governi nazionali a difesa del proprio paese. Così fanno il Partito socialista francese che entra nel governo di unione sacra con i propri rappresentanti, il Partito socialdemocratico tedesco fa pace con la sua classe dirigente borghese ed entra a far parte del governo. Fanno la stessa cosa i laburisti inglesi. Cioè, quando ormai la guerra è divampata e ha coinvolto tutte le grandi nazioni europee, il partito socialista italiano è l’unico a rimanere su posizione neutralista. Quali sono, a mio avviso, i risultati di questa decisione? Essa offrirà armi dialettiche, a guerra finita, a chi accuserà il partito socialista di avere di fatto aiutato indirettamente i nemici. Non è nemmeno giustificabile la ragione avanzata dai socialisti massimalisti, cioè di essere rimasti fedeli al messaggio internazionalista, della Seconda Internazionale, poiché la Seconda Internazionale era già morta nel momento stesso in cui l’adesione alla guerra da parte dei grandi partiti socialisti francese, tedesco e inglese aveva dimostrato che essa si basava su principi, diciamo, superati. La Seconda internazionale si reggeva su principi classisti, cioè sull’assunto che l’operaio non ha patria, l’operaio non riconosce i valori della nazione, anzi, che l’operaio tedesco e l’operaio francese hanno gli stessi interessi, poiché sono uniti dalla solidarietà di classe. Be’, la guerra stava lì a dimostrare esattamente il contrario, che l’operaio, il contadino francese erano accorsi a difendere il proprio governo, la propria nazione dall’aggressione tedesca, il socialista tedesco si era schierato a difesa delle ragioni agitate dal proprio governo borghese, accettando il fatto-guerra. Quindi la fine della Seconda Internazionale stava a dimostrare che durante l’età degli imperialismi le masse avevano subito profondi processi di nazionalizzazione, e quindi mentre gli altri grandi partiti socialisti ne avevano preso atto cogliendo l’occasione della guerra per avvicinare le masse da essi rappresentate alle istituzioni, e di fatto, accelerando i processi di democratizzazione, il partito socialista italiano era uscito dalla guerra con posizioni che avevano contribuito ad un ulteriore estraneamento delle masse dalle istituzioni liberali.