Discorso del 13 luglio 2014  tenuto al Poligono di Cibeno
Carla Bianchi Iacono

Signor ministro, autorità, signore e signori, cari amici carpigiani e milanesi.

Mi è stato chiesto dalla direttrice della Fondazione ex Campo di Fossoli, Marzia Luppi, che ringrazio, di parlare oltre che come cultore di storia contemporanea anche come figlia e rappresentante dei familiari dei 67 caduti.
E' la terza volta che parlo qui a Cibeno; nel 1996 quando ho incominciato ad occuparmi dei compagni di sorte di mio padre, dei quali si conoscevano solo i nomi e la provenienza, stilati in uno scarno elenco dai Carabinieri di Carpi subito dopo la riesumazione dei corpi dalla fossa comune; dieci anni fa nel sessantesimo anniversario in occasione dell'uscita del libro “Uomini nomi memoria”.
Oggi, la presenza di un ministro dello Stato, qui per la prima volta da che ho memoria, rende la cerimonia piena di significato e la leggo in modo positivo e di buon auspicio, anche se l'attesa è stata lunga.
Il mio intervento sarà basato su alcune riflessioni che riguardano la rimozione pubblica della strage di Cibeno nonché la scarsezza di studi sulla storia della Resistenza e la conseguente decisione di non inserirla nei libri di testo scolastici fino a qualche decennio fa.

Nella storiografia delle stragi italiane compiute dalle truppe nazifasciste nei terribili 18 mesi della guerra di Liberazione, quella di Fossoli è stata dimenticata nelle celebrazioni ufficiali dello Stato Italiano; ricordata ovviamente “nel privato” dai familiari dei caduti; dalla Amministrazione comunale Carpigiana, che ogni anno organizza questa cerimonia insieme alle associazioni di ex deportati e resistenziali. E nient'altro.
Eppure la modalità di questa strage è stata difforme da tutte le molte altre stragi compiute nel nostro Paese; la scelta nominativa delle vittime, la lista decisa dal comando tedesco con sede a Verona; la lettura della condanna a morte spacciata come rappresaglia per un attentato avvenuto a Genova quasi un mese prima.
Per ultimo e più grave a mio avviso, l'occultamento dei corpi, sotterrati in una fossa comune, coperta subito dopo le esecuzioni da calce e zolle d'erba, e qualcuno respirava ancora, hanno scritto, come si volesse cancellare completamente la loro esistenza; atto spregevole perché il più irrispettoso nei confronti dell'uomo.
Senza contare l'attesa per la dolorosa pratica del riconoscimento dei cadaveri da parte dei parenti protrattasi per oltre 10 mesi.
Nel maggio del 45 alcuni volonterosi amici di uno dei caduti partirono da Milano per cercare di ritrovare le salme e mettere in moto tutta la procedura di riesumazione e di riconoscimento, che culminò poi nei funerali solenni nel Duomo di Milano officiati dal cardinal Ildefonso Schuster.
E sono rimasti impuniti i tedeschi esecutori e gli italiani colpevoli della loro cattura, funzionari della RSI o civili improvvisatisi spie, e se condannati, ebbero condanne lievi. La giustizia è stata negata alle vittime, a noi familiari e all'intera collettività nazionale; la conoscenza della strage e l'elaborazione dei lutti e di una memoria collettiva è stata impedita.
Mi sono sempre chiesta, come mai una strage di tale portata è stata dimenticata e rimossa, contrariamente alle molte altre accadute sulla nostra terra, come quella delle Fosse Ardeatine, di S. Anna di Stazzema, di Boves, di Marzabotto, che sono state da subito ricordate pubblicamente.
Una delle tante spiegazioni potrebbe essere anche questa, che è, però, del tutto personale.
La comunità umana costretta nel campo di concentramento è stata percepita come qualcosa di estraneo, di lontano; tutto quello che accadeva all'interno non riguardava il resto del mondo, poteva venire ignorato e assimilato al più vasto fenomeno della deportazione e dello sterminio degli ebrei. La gran parte delle altre stragi sono avvenute in luoghi aperti, ben visibili ed estranei al concetto di concentramento e come tali hanno fatto subito scalpore e la loro rinomanza si è mantenuta nel tempo.
Mentre l'essersi verificata all'interno o nelle immediate vicinanze di un campo di detenzione la ha resa più accettabile, con un impatto meno violento e più giustificabile sia sugli abitanti del luogo, che nel resto d'Italia. Così fatalmente la sua eco si è spenta dopo poco, quando l'intera nazione era impegnata nello sforzo della ricostruzione.
E a questo proposito vorrei ricordare, per esempio, la strage di piazza Loreto, la fucilazione dei 15 martiri, dei quali è qui presente uno dei figli, Sergio Fogagnolo, che sono rimasti proprio all'aperto, sul marciapiede fin dalla mattina per tutta la giornata, perché i passanti vedessero.
Un'altra osservazione che mi pare possa spiegare le tante lacune della memoria pubblica è quella che riguarda la scuola e i suoi programmi di storia. Certamente l'aver relegato la Resistenza a cenerentola della storia o addirittura togliendola dai libri di testo come è stato proposto e attuato, ha avuto le sue conseguenze.
Orbene, la scuola dovrebbe essere il luogo deputato alla formazione di buoni cittadini; e tutti noi siamo cittadini che viviamo con altri e che con questi altri abbiamo in comune “l'appartenenza”, siamo tutti in relazione e ci riconosciamo in un complesso di valori che nascono dalla nostra storia comune di sofferenze e di tragedie, di sbagli e di debolezze, ma anche di riscatti e di eroismi.
La scuola fallisce quando non riesce a trasmettere questa appartenenza e i valori che la fondano: valori che sono scritti, chiari e inequivocabili, nella Costituzione, in quel patto fra tutte le parti politiche da cui è nata la nostra Repubblica.
E ancora di più la Costituzione rappresenta un atto di rottura con un passato tragico e ripudia ciò che lo fondava: la violenza, la sopraffazione, la corruzione, l'intolleranza, l'ignoranza e quindi il fascismo, in tutte le sue forme.
Nonostante il dettato costituzionale lo Stato italiano ha dimostrato una totale incapacità di fare i conti con quel passato, cancellando con l'Amnistia Togliatti tutti i crimini e i misfatti commessi tra l'8 settembre del 43 e la metà del 46; ciò ha portato negli anni successivi a equiparare, senza alcuna remora, le vittime con i carnefici.  
La mia generazione è cresciuta senza sapere nulla di quel periodo, coloro che avevano partecipato alla lotta non potevano o non volevano parlare ed erano comunque inascoltati.
Ed è anche curioso che solo nel nostro paese gli storici accreditati a livello universitario abbiano scritto molto poco sulla resistenza e su questa strage in particolare e se ne siano invece occupati giornalisti che si sono improvvisati storici, molti dei quali di chiara appartenenza partitica e quindi privi dell'obiettività che dovrebbe caratterizzare la ricerca vera.
Inoltre il filo della memoria si è trasmesso spesso e sempre di più, attraverso le linee familiari, con la pubblicazione di documenti, diari, lettere rimasti nascosti per decine di anni.
Da parte cattolica solo negli ultimi anni è stata sentita l'esigenza di divulgare e far conoscere l'importanza della loro partecipazione alla guerra di liberazione, anche se numericamente inferiore, e a quella non armata dei teorici che hanno elaborato i principi informatori di un nuovo ordine sociale che sarebbe sorto dopo la guerra.
La rottura di un filo unico conduttore della memoria ha fatto sì che la società attuale sia divisa a metà; da una parte chi ha compreso l'importanza della cittadinanza, del vivere nel rispetto delle leggi, nella partecipazione alla vita civile; dall'altra chi si misura solo sul potere del denaro e sul profitto e sa che il denaro compra tutto e tutti.

Concludo lasciando uno spunto di riflessione: credete che l'Italia che abbiamo oggi sotto gli occhi sia quella che immaginavano e speravano i nostri 67 e gli altri innumerevoli caduti per il futuro del loro Paese?

Io credo proprio di no.

Carla Bianchi Iacono