Regia: Paolo Sorrentino
Interpreti: Sean Penn, Judd Hirsch, Frances McDormand, Kerry Condon, Eve Hewson, Joyce Van Patten, David Byrne, Shea Whigham, Tom Archdeacon, Harry Dean Stanton, Seth Adkins, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick, Tamara Frapasella, Sarab Kamoo, Liron Levo
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: David Byrne
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Produzione: Indigo Film, Lucky Red, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé, Irish Film Board, Section 481, Eurimages Council of Europe, Italia, Francia e Irlanda
Anno: 2011
Durata: 118′ (colore)
Note: “This Must Be the Place” è un titolo che viene da una canzone dei Talking Heads ricantato per l’occasione da David Byrne. Il film sembra fatto apposta per dividere, a partire dalla struttura divisa in due atti. Viaggio e vendetta sono temi classici del cinema americano. Paolo Sorrentino se ne appropria per raccontare la tardiva formazione di un ebreo cinquantenne. Mica facile parlare di Olocausto, l’argomento è così tragicamente immane da produrre spesso storie tese a estorcere commozione e indignazione. Il regista napoletano muta prospettiva: inventa un ex famoso cantante pop gotico, Cheyenne, che si concia ancora come negli anni Ottanta, e lo fa scontrare con la parte jewish di sé incarnata da un padre morente, anzi già morto, da trent’anni dimenticato per timore di non essere amato. Ma quel numeretto tatuato sull’avambraccio del vecchio – 212603 – riapre il discorso, e per il figlio, così patetico coi suoi capelli tinti e cotonati, il bistro, il cerone, il rossetto, gli anfibi da adolescente, niente sarà come prima.
La caccia al piccolo criminale nazista che angariò il padre ad Auschwitz e ora s’è nascosto da qualche parte nello Utah è un meccanismo drammaturgico esemplare nelle mani di Sorrentino, che dribbla i rischi del già visto facendo del suo “This Must Be the Place” un road-movie torpido, allusivo, bizzarro, dalla morale ferma ma non scontata. Molto meditato sul piano dei dialoghi scritti con Umberto Contarello, il film allo stesso tempo restituisce quel gusto per il ritratto eccentrico, sospeso, vagamente “mostruoso”, così caro a Sorrentino. Cheyenne è metodico, depresso, sfasato, ma capace di battute icastiche. Tipo: «Passiamo troppo velocemente dall’età in cui si dice “Farò così” all’età in cui si dice “È andata così”».
Magari nell’andamento lento da road-movie esistenziale ci sarà pure qualcosa di Wim Wenders, anche se il modello resta il toccante “Una storia vera” di David Lynch. In effetti, l’elemento ossessivo dello stile è piegato a una narrazione più morbida, distesa; la costruzione geometrica dell’inquadratura, sempre accurata per tagli di luce e angolature, non divora l’atmosfera del racconto. Americano con giudizio, Sorrentino guida Sean Penn su un sentiero rischioso, sempre a un passo dal ridicolo con quella vocina in falsetto (doppia bene Massimo Rossi) e quell’incedere catatonico, eppure ci credi: anche uno così, murato vivo nel proprio passato sfiorito, prima o poi si desterà per tornare a vivere.
Michele Anselmi