Regia: Francesco Rosi
Interpreti: John Turturro, Massimo Ghini, Rade Sherbedgia, Claudio Bisio, Teco Celio, Roberto Citran, Stefano Dionisi, Lorenza Indovina, Ernesto Lama, Andy Luotto, Federico Pacifici, Franco Trevisi.
Sceneggiatura: Francesco Rosi, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, dal romanzo omonimo di Primo Levi.
Produzione: Italia-Francia, 1996 (125 minuti)
Non fosse morto suicida l’11 aprile del 1987, Primo Levi forse avrebbe tratto qualche un motivo di emozione dal film che Francesco Rosi trasse da “La tregua” dieci anni dopo, nel 1997. Due lustri ci vollero per trovare qualcuno – i produttori Leo Pescarolo e Guido De Laurentiis – disposto a gettarsi nell’impresa finanziaria: un kolossal molto costoso (si parlò di 20 miliardi di lire) e tuttavia sfortunato al botteghino.
È quasi inutile ricordarlo: nessun cineasta riuscirà mai a restituire l’orrore indicibile e irrappresentabile dei campo di sterminio, ma si può provare a raccontare il «dopo», il lento ritorno alla vita.
Ed è quanto fa “La tregua”, secondo le regole di uno spettacolone all’antica che mira al cuore del grande pubblico, reinventando l’andamento diaristico-corale del romanzo. Ne esce un film sontuoso e commovente, magari non sempre ben armonizzato nelle sue parti, ma attraversato da un’ispirazione sincera, da un forte senso di responsabilità creativa. L’unghiata del vecchio maestro si avverte più nell’orchestrazione dei sentimenti che nelle scene di massa, e forse questa dimensione «privata», paradossalmente appartata, risulta la qualità migliore della “Tregua”.
Nel trasporre sullo schermo le 170 pagine fitte fitte del romanzo, Rosi e i suoi sceneggiatori (Tonino Guerra, Stefano Rulli e Sandro Petraglia) hanno giustamente operato dei tagli, che non intaccano però la struttura picaresca del racconto, e anzi la esaltano, immettendo toni quasi da commedia all’italiana nella dimensione epica dell’odissea.
Quasi dieci mesi, dal 27 gennaio al 19 ottobre del 1945: tanto impiegò il ventiseienne ebreo torinese, scampato miracolosamente ai forni crematori di Auschwitz, a tornare a casa. Il film, girato interamente in Ucraina (spesso nei luoghi originari), resoconta l’interminabile viaggio. Una specie di convalescenza, un lento ritorno alla vita: anche se costantemente segnato dalla cognizione del dolore, perché – come scrive Levi – «Non può esistere Dio se esiste Auschwitz».
Libro e film cominciano nello stesso modo, con quella irreale visione mattutina: quattro soldati dell’Armata Rossa a cavallo che si materializzano nella neve e «rompono» il nulla pieno di morte in cui si aggiravano da qualche giorno i sopravvissuti del campo. «Di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti», dice Levi, e con lui John Turturro, dimagrito di dieci chili per aderire anche fisicamente all’esangue vitalità del deportato n. 174517.
Ci sono pagine intense nella “Tregua”: lo scambio di battute in latino con il vecchio prete di Cracovia; la conquista delle agognate scarpe; lo scambio di occhiate con la burrosa Galina durante la prima cena «normale»; il tenero gioco di sguardi che unisce uomini e donne, ormai liberati dall’incubo della fame, durante la festa organizzata dai russi; il perdersi nel bosco alla ricerca della scorticata Flora (Lorenza Indovina); l’inginocchiarsi solitario di quel soldato tedesco nella stazione ferroviaria di Monaco.
Altrove, soprattutto nell’incipit, il movimento delle comparse non risulta sempre convincente, l’ufficiale russo che balla in divisa imitando Fred Astaire è poco più di una trovatina, mentre i tre flashback in bianco e nero sull’inferno del lager introducono un elemento drammatico già iscritto nella durezza della storia. A differenza del libro, pervaso da uno struggimento costante che poi è il peso della memoria, il film gioca felicemente nella seconda parte la carta della commedia di viaggio.
Come in una variazione di “Tutti a casa”, assistiamo così al formarsi del variopinto gruppetto di italiani che fa da cornice al risveglio del protagonista: un microcosmo dialettale composto dall’ebreo romano sordianamente cialtrone (Massimo Ghini), dal ladro milanese stritolato dalla Storia (Claudio Bisio), dal giovane veneziano unico scampato alla decimazione della famiglia (Stefano Dionisi), dal siciliano tormentato dalle cimici (Andy Luotto), dal violinista triestino recuperato al sorriso (Roberto Citran), dal finto colonnello pasticcione (Teco Celio).
Per tutti il film ha una parola gentile, di pietosa solidarietà, anche se è probabilmente il Primo Levi di John Turturro (doppiato da Roberto Pedicini) a imporsi per l’intonazione dello sguardo e l’immersione psico-fisica. Non sembra quasi un attore americano, il Turturro della “Tregua”: come se il suo muoversi smarrito e dolente tra le macerie attingesse a un ricordo profondo, di famiglia, a un “déjà vu”.
Michele Anselmi