Regia: Laszlo Nemes

Interpreti: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn
Sceneggiatura: Laszlo Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Montaggio: Matthieu Taponier
Produzione: Laokoon Filmgroup, Ungheria
Anno: 2015
Durata: 107′ (colore)

Il figlio di saulNote: Difficile riuscire a vedere una seconda volta “Il figlio di Saul”, comunque lo si giudichi (sono volate anche critiche puntuali a certi aspetti della ricostruzione storica, nonostante l’Oscar per il miglior film straniero). Forse bisognerebbe leggere libri come “Pensaci uomo” o “Si fa presto a dire fame” di Piero Caleffi, illustre dirigente socialista e poi vicepresidente della Camera, per capire che cosa significò sopravvivere a quell’orrore indicibile, forse irrappresentabile al cinema. Non aveva tutti i torti il giovane Jacques Rivette nel criticare Gillo Pontecorvo per come filmò la morte di Emmanuelle Riva in “Kapò”; e certo “La vita è bella” di Roberto Benigni, film pure onusto di gloria, incassi e premi, qualche problema estetico-morale lo pone, al pari di altri titoli sulla terribile materia storica. L’ungherese László Nemes sceglie una via rigorosa ed espressivamente forte, procede per sfocature o dettagli, non si distacca quasi mai dal campo visivo di Saul: non è una scelta reticente, semmai la ricerca di un pudore che non nega l’atrocità praticata dai tedeschi, quel ridurre uomini, donne e bambini a “pezzi”, ma annulla ogni cliché cinematografico per mettere a fuoco la distruzione sistematica della dignità umana.

Chi è Saul? È un ebreo ungherese finito nell’inferno di Auschwitz-Birkenau. Inserito nelle squadre dette Sonderkommando, ha il compito, rassicurandole, di condurre le vittime nelle docce a gas, poi di ritirare i vestiti, di ammucchiare i cadaveri per i forni crematori e infine disperdere le ceneri con la pala. Ma anche i Sonderkommando, come chiunque abbia un numero tatuato su un braccio, sono a stretta scadenza: sanno troppo e quindi trascorsi quattro mesi vengono a loro volta eliminati.
Nell’autunno 1944 Saul crede di riconoscere il proprio figlio nel corpo di un ragazzo da sottoporre ad autopsia per stabilire come sia sopravvissuto agli effetti dello Zyklon B. Il supposto padre non vuole che venga bruciato, ma seppellito secondo i precetti religiosi. E così cerca un rabbino che reciti per lui e insieme a lui l’orazione per i defunti, nonostante la sua determinazione metta in pericolo non solo se stesso, ma anche i compagni che stanno per scatenare, con poche speranze di successo, una rivolta.

La rappresentazione della Shoah assume una messa in scena quasi insostenibile e nello stesso tempo trova una forma di cinema sublime e terrificante insieme, che ha nella sfocatura iniziale e nella compulsione drammaturgica l’avvio di un ritmo interiore implacabile, certo disturbante fino al disagio. Il viso di Géza Röhrig, non attore professionista ma scrittore e poeta, restituisce paura e decisione, spaesamento e coraggio: la sua interpretazione, più che di parole, è trapunta di silenzi sino ad un sorriso indefinibile che forse rende “Il figlio di Saul” una sorta di «preghiera laica».

Michele Anselmi