Regia e sceneggiatura: Stefan Ruzowitszy
Interpreti: Karl Markovics, August Diehl, Martin Brambach, August Zirner
Produzione: Germania, 2007 (98 minuti)

Erano i “privilegiati” dei blocchi 18 e 19, nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a una trentina di chilometri da Berlino. Circa 140, tra tipografi, linotipisti, grafici, disegnatori, incisori, esperti di contraffazione, quasi tutti ebrei. Scampati alle camere a gas, sapevano che sarebbero stati comunque uccisi affinché non rivelassero i segreti dell’”Operazione Bernhard” voluta da Himmler. Ma intanto, mentre a pochi metri da quelle baracche la gente crepava di stenti, godevano di pasti caldi, acqua, letti comodi, sigarette, vestiti, musica d’operetta di sottofondo. Perfino un tavolo da ping-pong.

Era “la gabbia dorata”. Grottesco? Certo, ma vero. Il III Reich aveva bisogno di loro: tra il 1942 e il ’45, stamparono qualcosa come 134 milioni di sterline false, tre volte il Fondo monetario della Gran Bretagna, per indebolire l’economia della “perfida Albione”, e documenti, passaporti, francobolli. Poi sarebbero passati ai dollari, più difficile da riprodurre. La fine della guerra li salvò.

Gran bel film, “Il falsario”, pure baciato da un Oscar nel 2008, diretto dal regista viennese Stefan Ruzowitsky. Dedicato ad Adolf Burger, ebreo slovacco, l’ultimo di quel gruppo di falsari ad essere morto ultranovantenne. Il numero 64401 ancora inciso sul braccio, Burger perse la prima moglie a Birkenau e venne risparmiato per un’unica ragione: era tipografo professionista. Nel film, tratto dal suo libro “L’officina del diavolo”, è incarnato, con dignitosa fierezza, da August Diehl, ma non è lui il protagonista, bensì Salomon Sorowitsch, nella realtà Salomon Smolianoff, l’ebreo russo-tedesco chiamato a sovrintendere alle attività di quel singolare team di falsari. Un’autentica canaglia, pronta a tutto per non darla vinta ai nazisti. Nella prima scena lo vediamo approdare, a guerra finita, in un casinò di Montecarlo, la valigetta piena di dollari falsi, subito rimorchiato da una puttana d’alto bordo. I soldi “sporchi” sono la sua assicurazione, e intanto parte il flash-back, che lo riporta al 1936, quando frequentava facoltosi nazisti e belle donne, arricchendosi confezionando passaporti falsi per ebrei come lui.

Il malinconico finale in riva al mare, con una bottiglia di champagne e la bella donna che si china sul protagonista scampato alla Shoah, custodisce una sorpresa da non svelare. “Il falsario” usa le tecniche del thriller e del genere carcerario, con stile spettacolare e coinvolgente, ma senza rinunciare a una domanda morale di fondo: “Si può giocare a ping-pong in un lager mentre a pochi metri di distanza vengono torturate e uccise centinaia di persone? Che cosa significa scegliere tra sopravvivenza e dignità?”. Una parola rispondere.

Michele Anselmi