Regia: Roberto Faenza
Interpreti: Eline Powell, Robert Sheehan, Antonio Cupo, Nico Mirallegro, Andrea Osvárt
Produzione: Jean Vigo Italia
Sceneggiatura: Roberto Faenza, Edith Bruck
Fotografia: Arnaldo Catinari
Musiche: Hans Zimmer
Anno: 2014
Durata: 90′ (Colore)
Note: Nel gennaio 2014 Roberto Faenza pagò di tasca sua una pagina pubblicitaria su un grande quotidiano per reclamizzare “Anita B.” in modo provocatorio, insomma perché se ne parlasse. Una spesa ingente, affrontata dal regista per controbilanciare il crescente disinteresse verso il film, tratto dal romanzo di Edith Bruck “Quanta stella c’è nel cielo”. La pagina mostrava una grande foto in bianco e nero del gerarca nazista Adolf Eichmann durante il processo che portò alla sua condanna, sopra la scritta: «A quale X-Factor partecipò Eichmann? Anche una domanda così, in una Paese dove i concorrenti di “L’Eredità” non sanno chi fosse Hitler, potrebbe finire in un quiz tv».
Faenza, regista torinese di film fortunati come “Sostiene Pereira” o “Prendimi l’anima”, pensava forse di smuovere le acque, scuotere qualche coscienza, ravvivare il dibattito sulla memoria cancellata (non solo della Shoah). Invece “Anita B.” uscì solo in una ventina di copie o poco più. Proprio a causa del tema: la storia di Anita, una ragazza ebrea di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz e accolta nel 1945 tra le montagne di Zvikovez dalla zia Monica, l’unica parente rimasta viva, che la vede come un peso, come la testimonianza di un passato tragico da dimenticare, tanto da allestire l’albero di Natale per rimuovere le radici ebraiche.
Badate bene: non si vede mai il lager di sterminio, Anita rifiorisce fisicamente quasi subito, lavora in una fabbrica, si innamora, viene delusa dal fidanzato, alla fine fugge in Palestina per sentirsi ebrea tra gli ebrei. «Viaggio serena verso il passato, con un solo bagaglio: il futuro» scandisce sui titoli di coda la protagonista incarnata dalla minuta Eline Powell. Niente da fare. “Anita B.” non trovò un suo pubblico, certo per l’argomento considerato da molti respingente, ma anche per una regia spesso inerte, meccanica, poco risolta. Benché Faenza continuasse a dire nelle interviste: «Non ho fatto un film sull’orrore di Auschwitz, ma sul dopo, sul ritorno alla vita».
Michele Anselmi