Dopo l’Armistizio tra l’Italia e gli Anglo-americani, proclamato l’8 settembre 1943, circa 800.000 soldati italiani vengono catturati e disarmati dai tedeschi. Si trovano in patria o all’estero, tra Jugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, paesi baltici e Unione Sovietica. Di questi, circa 650.000 mila finiscono nei campi di prigionia tedeschi, chiamati Stalag (Mannschaftsstammlager, campo per prigionieri di guerra) o Offlag (Offizierlager, campo per gli ufficiali), in Germania, Austria ed Europa orientale. Alcuni degli internati vengono inviati nei campi di concentramento, soprattutto a Mittelbau-Dora e Dachau.
Il regime nazista non considera i soldati italiani catturati come prigionieri di guerra, ma li classifica come “internati militari italiani” (IMI), privandoli così delle tutele garantite ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligandoli al lavoro. L’obiettivo principale della politica del Reich dopo il 1941 è quello di sfruttare la manodopera schiavile per incrementare la produzione bellica.
Durante l’internamento ai soldati italiani, e soprattutto agli ufficiali, viene ripetutamente offerta la possibilità di essere liberati a patto di arruolarsi nelle forze armate tedesche o in quelle della Repubblica Sociale Italiana. La gran parte degli internati rifiuta, dando vita a una forma di Resistenza “disarmata”. Molti si oppongono a qualsiasi tipo di collaborazione.
La Repubblica Sociale Italiana non aiuta in alcun modo i connazionali che, con il consenso di Mussolini, nell’agosto 1944 vengono riclassificati come “lavoratori civili”, e sono obbligati al lavoro nelle fabbriche del Reich. Non è certo il numero di quanti persero la vita a seguito dell’internamento, si stima siano stati tra i 37.000 e i 50.000.