Leopoldo Gasparotto
Nato a Milano il 30 dicembre 1902 da Luigi Gasparotto e Maria Biglia, avvocato.
Scalatore, alpinista, autore di prime ascensioni sulle Alpi (gli è dedicata una via sul Monte Rosa), condusse esplorazioni nel Caucaso (1929), dove gli è intitolata una vetta nel massiccio dell’Elbruz, e in Groenlandia (1934). Fu anche Accademico del CAI e appartenne alla scuola militare di alpinismo.
Luminosa figura di antifascista, assieme al padre (ministro nel periodo prefascista poi nuovamente al governo nei primi ministeri democratici) e ad altri tentò di organizzare la difesa di Milano prima dell’8 settembre. Ma il comando militare di quella piazza rifiutò la collaborazione, capitolando poco dopo.
Gasparotto allora salì sui monti lombardi ove diede vita alle prime formazioni partigiane, divenendo comandante delle “Giustizia e Libertà”. Eroico combattente del Partito d’Azione, “simbolo vivente di coraggio e risolutezza” (Baccino), fu il maggior collaboratore di Parri. Arrestato a Milano l’11 dicembre 1943, torturato ferocemente a San Vittore e a Verona, inviato al campo di concentramento di Fossoli, vi continuò un’attiva resistenza, fino a che il 21 giugno 1944 venne soppresso dalle SS a Fossoli di Carpi.
Fu insignito di medaglia d’oro al Valor Militare alla Memoria.
Enea Fergnani, che condivise con lui l’internamento a Fossoli, ricorda così il suo assassinio (Enea Fergnani, Un uomo, tre numeri, [Speroni editore, Milano, 1945], Multimage Firenze 2003, pp. 88-89):
“22 giugno. Alle 13.30 Poldo Gasparotto è stato assassinato. Pochi minuti dopo le 13, un inviato entra nella baracca 18 ad informare che il maresciallo (Haage, ndr.) attende Gasparotto alla sede del Comando. Poldo interrompe la colazione, si alza e va diritto verso l’uscita. Fatti pochi passi fuori dalla baracca, rientra, chiama Brenna e gli consegna un sottile pacco di carte che toglie dai suoi calzoncini. “Tieni – gli dice – Nascondi”. E si avvia ancora verso l’uscita in calzoncini e zoccoletti. I più vicini lo seguono con lo sguardo. Qualcuno esce dalla baracca e lo vede proseguire attraverso il cancelletto al di là della rete, soffermarsi un istante dinanzi a un posto di controllo per far annotare il suo numero e procedere verso la baracca del Comando. Qualcuno che è in quei pressi osserva che due SS ferme accanto a un’automobile fanno due passi verso di lui, e dopo un brevissimo scambio di parole gli applicano ai polsi le manette. L’autista è al suo posto. Gasparotto e i due sicari armati di mitra salgono sull’automobile che parte seguita da una SS in motocicletta. Uscita dal portone, la macchina volta a sinistra e il rombo del motore in marcia velocissima si perde nella campagna assolata.
Dopo una quindicina di minuti il motociclista rientra al campo, conferisce col maresciallo Haage e riparte.
Più tardi fa il suo ingresso al campo un furgoncino dalle cui commettiture cadono sulla polvere stille di sangue.
A San Vittore e a Fossoli, dal 10 dicembre 1943, Poldo, come lo chiamavano tutti, era il simbolo vivente del coraggio, dell’ardimento, della risolutezza. Per la sua fede aveva accettato senza esitazione il rischio, aveva offerto senza esitazione la vita. Egli aveva costretto i manigoldi di Hitler e i venduti di Mussolini a scendere a patti con lui. Egli avrebbe lottato sempre, in città, in montagna, in carcere, a Milano, a Fossoli, ovunque. Pose lui stesso ai suoi nemici il dilemma: o subire la sua lotta o ucciderlo. […]
Già il nostro animo era profondamente addolorato dalla recente partenza dei compagni. L’improvvisa tragedia ci ha percossi come un segnale di strage. I commenti sono rapidi, brevi, sommessi. I più si impossessano di due notizie vi costruiscono sopra le loro congetture: una lettera recentissima giunta da Verona al comandante di Fossoli ordinava di trattenere Gasparotto al campo; due donne sono state chiamate anch’esse al Comando dopo di lui e non sono tornate alla loro baracca fronteggiante la strada. Io non so con esattezza come questi particolari si ricollegano all’uccisione di Poldo, ma è indubbio che un legame esiste. Una serie di fatti è certa. Gasparotto era in collegamento con l’esterno per mezzo di due persone alle quali egli, nelle ultime settimane, trasmetteva comunicazioni frequenti. Dell’arrivo di tali persone in prossimità del campo, egli riceveva di solito notizia per mezzo di una donna dal nome straniero e che risulta essere una delle due scomparse. Verso mezzogiorno del 22 egli attendeva, con lo stesso mezzo, notizie sull’esito di un tentativo di liberazione del convoglio partito il 21. Le due persone con le quali era in collegamento erano da lui ritenute appartenenti al Partito d’Azione e, a suo dire, fidatissime. Gli risultava che erano collegate con partigiani che agivano oltre Verona dove appunto avrebbe dovuto essere tentata la liberazione. È possibile che il filo della trama sia caduto nelle mani della Ghestapo. Indice ad ammettere questa possibilità l’ordine di trattenere Gasparotto a Fossoli mentre quasi tutti i suoi diretti compagni di lotta venivano inclusi nella lista dei deportati, e la sosta di molte ore nella stazione di Carpi del treno che li trasportava.”