La banca dati dei deportati bresciani   è  raggiungibile al  seguente indirizzo:

https://www.deportatibrescia.it/deportati-bresciani/

NON SOLO I NOMI

Il data base include i nomi di oltre 400 deportati bresciani – nati in questa provincia, o che qui furono arrestati/catturati sebbene nati altrove, o che vi presero residenza dopo la fine della guerra, – che, per vari motivi, fecero la drammatica esperienza dei campi di concentramento (Konzentrationslager-KL), o di sterminio (Vernichtungslager-VL), gestiti entrambi dalle Schutzstaffeln-SS. Si tratta, quindi, di deportati “per motivi di sicurezza”  (Schutzhäftling), o “politici” (Politisch) – locuzioni solitamente equivalenti, – o perché appartenenti alla “razza ebraica”. Inoltre, nell’elenco, sono compresi gli Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierten-IMI), ed i prigionieri di guerra (Kriegsgefangener-KGF), che per ragioni più diverse, furono tradotti nei KL e nei sottocampi di loro competenza amministrativa. A questi vanno aggiunti gli internati di Kahla, un Arbeitserziehungslager (campo di educazione al lavoro), e di Bolzano-Gries,  un “Polizei-und Durchgangslager Bozen”, ovvero un campo di raccolta, smistamento, transito e polizia con sede a Bolzano e gestito dalle SS. Tale struttura non rientra, come del resto Kahla, nei campi di concentramento elencati sulle Gazzette ufficiali tedesche pubblicate nel 1977 e 1982, pur imponendo condizioni di vita e lavoro paragonabili a quelle in atto nei KL ufficialmente riconosciuti come tali. Per tale ragione abbiamo ritenuto eticamente giustificato inserire nel data base anche i loro profili biografici.

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario (Primo Levi)

Ravensbrück mi diede “un’impressione orribile: tutti quei fili spinati, così alti, tutte quelle baracche, il terreno tutto grigio (il grigio dei forni)… E lì ci hanno fatto fare la quarantena: prima siamo stati nel cortile per tutta la notte e tutto il giorno dopo, senza mangiare, senza niente, poi, prima che venisse la sera del giorno dopo, hanno cominciato a chiamarci e a darci un numero, stampato su un pezzo di tela… Poi si passava dentro in una stanza, in fila una dietro l’altra: ci toglievano tutto quello che avevamo addosso e ci veniva buttato un vestito a righe (tipo una vestaglia), ci mettevano su questo triangolo rosso, che voleva dire italiano, e sotto il numero…” (Enrichetta Comincioli, bresciana)